Menu Chiudi

Mariangela e l’arte dell’incontro

 intervista a Mariangela Caroppo a cura di Simona Lancioni

È un bel profilo di donna quello di Mariangela Caroppo, donna con disabilità di origine salentina “trapiantata” in Friuli, che ha dovuto e saputo reinventarsi in molti momenti della sua vita. Una vita intesa come “arte dell’incontro” di persone, ma anche di culture diverse.

 

Cara Mariangela, come hai convissuto con la tua disabilità, e cosa è cambiato col tempo?

Mariangela (al centro) sul sentiero che porta alle Tre cime di Lavaredo, mentre spinge la sedia a rotelle come fosse un deambulatore.
Mariangela (al centro) sul sentiero che porta alle Tre cime di Lavaredo, mentre spinge la sedia a rotelle come fosse un deambulatore.

«La diagnosi di miopatia distale, avuta a 28 anni, mi è stata posta nei termini “non andrai alle Olimpiadi, ma avrai una vita normale almeno fino a 60 anni“. Così ho vissuto come se non ci fosse alcun problema, in parte perché sottovalutato, in parte perché non volevo preoccupare mia madre (i miei ricoveri erano camuffati da convegni in giro per l’Italia).
Il mio trasferimento in Friuli [Mariangela è originaria del Salento, N.d.R.] ha facilitato questo nascondimento, per cui ho vissuto da sola le prime difficoltà.  Però è stato quello il momento in cui è arrivata a Udine Paola, un’amica che avrebbe dovuto fermarsi a casa mia per poco tempo e con la quale ho invece convissuto 16 anni.  Anche dopo il mio trasferimento in un paese della provincia, lei ha cercato per anni una casa fino a quando non l’ha trovata a pochi metri dalla mia, in modo tale da poter intervenire tempestivamente tutte le volte che io ne avessi avuto bisogno.
Nel frattempo la mia malattia si è evoluta in modo progressivo, come da manuale: difficoltà a fare le scale, ad alzarmi da terra, poi dalla sedia, poi a camminare senza appoggiarmi a qualcuno o al muro.  Ed è stata proprio l’esigenza di attraversare corridoi molto ampi a scuola che mi ha portato ad optare per la carrozzina.  Ricordo la prima volta che ne ho avuta una tra le mani, sul sentiero che porta alle Tre cime di Lavaredo: io avevo paura di precipitare giù dal dirupo, l’amica che mi accompagnava aveva paura di spingere, per cui l’abbiamo utilizzata come deambulatore su cui appoggiare gli zaini. Qualche giorno dopo mi ci sono seduta perché non ho trovato una sedia.
L’incontro con la UILDM è stato fondamentale.  Attraverso l’associazione ho conosciuto il Centro Prisma di Belluno che negli anni ’80 –  ’90 organizzava dei corsi di educazione all’autonomia e di comunicazione dell’autonomia. Ho frequentato i due corsi che mi hanno fornito anche un supporto teorico a quanto andavo sperimentando sulla mia pelle e attraverso la frequentazione di altre persone disabili.
Negli anni ho dovuto affrontare continue ristrutturazioni di campo: ad ogni perdita di funzione dovevo cercare altre modalità, trovare nuove strategie, modificare e ridimensionare aspettative, inventarmi nuove passioni e desideri.
Ora che ho sessant’anni posso dire che non ho partecipato alle Olimpiadi, ma la mia vita è stata sempre una corsa ad ostacoli.»

Hai insegnato per tanti anni, quali sono state le maggiori gratificazioni, e quali le difficoltà riscontrate nella tua esperienza lavorativa?

«Sono approdata all’insegnamento per caso, non lo avevo scelto né tantomeno desiderato; pensavo che sarebbe stata un’esperienza episodica o di ripiego. Fu proprio la disabilità, non la mia, ma quella cognitiva, a farmi fare la pace con la mia storia. Il rendermi conto della mia inadeguatezza, del fatto che avrei dovuto studiare per comprendere questo nuovo mondo e trovare strategie per rapportarmi ad allievi con bisogni che io non conoscevo, mi ha riportato nel mondo della ricerca che avevo lasciato a Lecce dove collaboravo con l’Istituto di sociologia. Dopo aver insegnato per anni Lettere, ho preso la specializzazione e sono passata sul sostegno, insegnamento in cui le difficoltà diventavano una continua sfida, e i cui risultati rappresentavano dei traguardi tanto insperati quanto gratificanti. Le difficoltà non sono mancate, dalle barriere negli edifici al capo d’ Istituto che si rifiutava di spostare l’aula al pianterreno.  Ma, oltre agli allievi che ancora mi ricordano e mi cercano, ho incontrato colleghi eccezionali che mi hanno insegnato tanto e con i quali è nata un’amicizia rimasta intatta dopo 30 anni.»

Sei stata, e lo sei tutt’ora, molto impegnata nella UILDM. Che significato ha per te l’esperienza del volontariato? Come spiegheresti alle nuove generazioni l’importanza dell’impegno civile?

Mariangela (a destra) seduta sulla sedia a rotelle.
Mariangela (a destra) seduta sulla sedia a rotelle.

«Sono entrata a far parte della UILDM nel 1985, prima come semplice socia, poi come consigliera e rappresentante delle associazioni all’interno del GLIP, il Gruppo di Lavoro Provinciale per l’inclusione scolastica, infine come presidente per sei anni.  Dalla UILDM ho ricevuto tanto in termini di informazioni, di supporto medico, legislativo, psicologico, di aiuto concreto in tanti momenti più o meno difficili. Credo anche di aver dato, in particolare durante la mia presidenza. Ho cercato soprattutto di avvicinare e coinvolgere le giovani coppie con bambini piccoli e i giovani. È nata in quegli anni la prima squadra di weelchair hockey, gli incontri con la psicologa ed è stata avviata l’attività della casa UILDM.
Il volontariato per me non è qualcosa di episodico, non è un’esperienza di breve o lunga durata, ma qualcosa che fa parte della mia vita.  Anche come insegnante si fa volontariato. Ho sempre diviso gli insegnanti in impiegati e in educatori.  I primi timbrano il cartellino e fanno lo stretto indispensabile, gli altri prendono a cuore ciò che fanno, consapevoli che il processo di insegnamento – apprendimento li riguarda, si assumono le responsabilità invece di demandarle ad altri. In questo, secondo me, consiste il volontariato: nel rendersi conto che i cambiamenti nella società non calano dall’alto, né possono essere opera di un gruppo ristretto, ma riguardano tutti; ognuno ha il suo compito in base al suo ruolo e alla sua specifica condizione. L’aggettivo possessivo non sta ad indicare che ognuno debba coltivare il proprio orticello, ma una visione più ampia, olistica, che comprenda relazioni tra campi diversi, che sviluppi al meglio un settore in modo tale da avere una ricaduta positiva sugli altri al fine di un cambiamento.»

Quale tipo di riflessioni ti ha suscitato la circostanza di vivere la disabilità da donna?

«La differenza di genere l’ho avvertita soprattutto nelle risposte della gente, in ciò che mi veniva rimandato. Ho avuto la fortuna di muovermi più o meno indipendentemente fino a quarant’anni e questo mi ha permesso traguardi lavorativi raggiunti con percorsi comuni ad altri miei colleghi. Fino a quando sono stata in piedi le mie colleghe donne si accorgevano delle mie difficoltà, gli uomini invece, soltanto quando mi hanno visto in carrozzina mi hanno chiesto che cosa fosse successo. Da quel momento sono diventata un “fenomeno”. Ero brava, coraggiosa, eccezionale perché vivevo da sola, lavoravo, guidavo. Ricordo la reazione dei collegi docenti ai miei interventi: stupore, come se disabilità fosse sinonimo di incapacità mentale. Non ho mai notato la stessa reazione nei confronti di uomini disabili.»

Qualche anno fa hai dovuto imparare a convivere col la PEG (ovvero la Gastrostomia Endoscopica Percutanea, una tecnica che consente la nutrizione enterale) e la tracheotomia. Un momento molto difficile, che però sei riuscita a superare reinventandoti. Ti senti di parlane?

L’elleboro di Mariangela in piena fioritura.
L’elleboro di Mariangela in piena fioritura.

«La disfagia prima e la PEG dopo sono quanto di peggio possa capitare a una buongustaia quale io ero. Non mi sono rassegnata subito, ma ho cercato di modificare l’alimentazione seguendo in parte i consigli della logopedista, in parte ascoltando le risposte del mio corpo all’introduzione dei vari cibi. Ho notato con sorpresa, all’inizio, che riuscivo a mangiare con più facilità alimenti croccanti, ad esempio, pizza sottile e bastoncini Findus che non avevo mai mangiato. Poi ho capito che un cibo con una consistenza morbida non mi portava ad attivare un corretto movimento di masticazione e di deglutizione, cosa che avveniva con qualcosa di più duro. Anche dopo la PEG ho continuato a mangiare fino a quando non è stato veramente faticoso ed estenuante perché qualcosa andava sempre di traverso. Oggi bevo soltanto mezza tazzina di caffè col cucchiaino, succhio qualche piccola caramella e assaggio, ma non sempre, quando cucino. Sì, cucino più di prima. Preparo come sempre molte verdure, piatti della tradizione salentina, piatti di altre culture, soprattutto etiope e indiana e ricette che invento con quello che ho. Come ti dicevo, mi riempio gli occhi di colori, il naso di odori, la percezione dei sapori si è acuita.
Come sono arrivata alla tracheotomia non lo so. Utilizzavo il ventilatore soltanto la notte, qualche volta al pomeriggio. Ricordo soltanto che discutevo col dott. Peratoner che mi ricordava cosa mi sarebbe successo una volta ricoverata e che rispondevo di essere consapevole ma che non respiravo.  Poi mi sono risvegliata con un’appendice in più. È proprio il risveglio la fase della giornata che dopo l’intervento è migliorata. Prima, nonostante la ventilazione, mi svegliavo con fame d’aria, ora mi sveglio riposata e, in questo periodo, con la saturazione a 99.  Non nascondo che i primi mesi sono stati duri; è un prendere le misure ogni giorno. Pensavo di avere qualche problema ad accettare l’aspetto estetico, invece, appena la temperatura l’ha permesso, sono uscita senza sciarpette che potessero nascondere. Ciò che è stato difficile da accettare è stato il rapporto col tempo. Mi sveglio alle 6 – 6.30 per essere pronta alle 10. Ci sono giornate in cui non concludo niente. Per una come me, abituata a fare mille cose, rassegnarsi alla lentezza è stato duro! Ho dovuto veramente reinventarmi. In realtà niente di nuovo: leggo, cucino, guardo un po’ di più la televisione e ho ripreso a curare le piante, attività che avevo trascurato dal momento che non riuscivo a farlo da sola. Non lavoro più con la ceramica perché le braccia e le mani si sono sempre più deboli.  Faccio ancora qualche lavoretto manuale per i mercatini della UILDM. Ricevo sempre amici costretti spesso a leggere il labiale perché la voce è talmente flebile da non poter essere udita. La creatività è presente in molte di queste attività e quando sento il sorriso che spinge da dentro posso considerarmi soddisfatta. E come non sorridere di fronte al miracolo dei semi che germogliano, delle piante grasse che si moltiplicano, dell’elleboro in fiore?»

La tua situazione di disabilità implica la necessità di assistenza nello svolgimento di molti atti quotidiani della vita, come ti sei organizzata riguardo a questo aspetto?

Mariangela (a destra) con la sua amica Paola.
Mariangela (a destra) con la sua amica Paola.

«Ho cominciato ad aver bisogno di aiuto quando ancora insegnavo, prima soltanto al mattino, poi anche al pomeriggio, infine anche la notte da quando vivo da sola. Al momento ho due assistenti, una per il giorno, l’altra per la notte; le tre ore scoperte tra un turno e l’altro le fa Paola così come il pomeriggio del sabato, la domenica e la notte tra domenica e lunedì. Usufruisco del contributo regionale in base al FAP (Fondo per l’autonomia Possibile), legge regionale in cui è stato inserito il Sostegno alla Vita Indipendente, con il quale copro metà delle spese. Preferisco personale non formato perché spesso chi dice di avere esperienza è abituato a persone anziane, a sostituirsi nelle decisioni, ad atteggiamenti pietistici. Provvedo io alla loro formazione insieme a chi va via che insegna praticamente come svolgere le varie operazioni. È importante che comprendano che decido io cosa e come fare. Negli anni si sono succedute assistenti italiane ad altre provenienti da tutto il mondo: anche questa una bella opportunità di conoscenza di culture diverse

Mi hai scritto «gli ingredienti che rendono la vita degna di essere chiamata Vita non mancano». È un pensiero bellissimo. Vuoi parlarci di questi ingredienti? E, visto che ci sei, cosa ci cucineresti?

Un piatto misto, in parte indiano, in parte salentino e in parte inventato, preparato da Mariangela.
Un piatto misto, in parte indiano, in parte salentino e in parte inventato, preparato da Mariangela.

«“Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere”, vale a dire: “Non deridere, non compiangere, né detestare, ma comprendere” (Seneca).
Il motto che mi ha sempre accompagnato sin dall’adolescenza, lo avevo scritto sulla copertina di un vecchio quaderno poi trasformato in album di foto e, col senno di poi, mi sono resa conto che era anche ciò che aveva guidato mia madre e che mi aveva trasmesso con il suo esempio. Dalla mia terra (il Salento) ho preso l’accoglienza, l’apertura; la mia casa è un porto di mare, o, come diceva una mia assistente, “questa è la casa del buon Gesù, chi entra non esce più”. Dalla cultura contadina ho preso la pazienza e la cura.
Questa premessa per dire che l’ingrediente base della mia vita è l’amicizia, sono le persone che incontro e che mi circondano con il loro affetto. Mantenere i rapporti costa fatica, richiede impegno e costanza, ma mi è venuto sempre molto naturale rinunciare ai miei impegni per rispondere alle esigenze dei miei amici. E il piacere della loro presenza mi ha ripagato ampiamente. Le amiche più intime mi rimproverano di giustificare fin troppo tutti, ma io credo che ognuno di noi parta da premesse diverse, non tutti hanno avuto la fortuna di avere genitori come i miei o di vivere in un ambiente sociale sano.
Vi cucinerei un piatto misto, in parte indiano, in parte salentino e in parte inventato: riso basmati, pollo al curry, curry di verdure inventato da me, peperoni con aceto, pan grattato e menta, peperoni arrostiti e melanzane grigliate.»

 «Leggo molto con lo stesso piacere di quando ero adolescente, ma, chiaramente, con una consapevolezza diversa», anche questo è un tuo pensiero. Che tipo di letture fai? Un titolo, o un autore/trice, da leggere assolutamente?

I libri hanno avuto un ruolo importante nella mia formazione. Il primo, La capanna dello zio Tom, letto a cinque anni e La piccola Fadette dopo, mi hanno insegnato a vedere e a tenermi lontana da razzismi e pregiudizi, a cogliere ed apprezzare le diversità, ad avere una prima idea dei diritti civili. Il Piccolo principe, riletto da adulta con i miei alunni, mi aveva fatto comprendere il valore dell’amicizia e la responsabilità e l’impegno che un rapporto richiede.
Non ti ho mai raccontato il rapporto che c’era tra i libri e i miei genitori. Mio padre aveva frequentato fino alla quarta elementare al paese (la quinta non c’era) e aveva concluso da privatista, andando in bicicletta da un prete, in un paese vicino. Gli era rimasta la passione della lettura e leggeva qualunque foglio stampato gli capitasse tra le mani (anche la carta con cui all’epoca incartavano il pesce). Mia madre, nata nel 1911, non è andata a scuola perché nel 1917 suo padre era al fronte e il nonno ritenne opportuno tenerla a casa a badare al fratello più piccolo. Unica di sette figli a non essere andata a scuola, mia madre ha sempre detto “I miei mi hanno dato il castigo più grande che si possa avere. Se avrò un figlio venderò anche la camicia, ma lo farò studiare”. Lei poi aveva imparato al leggere a scrivere sui libri di preghiere associando la forma scritta a quella orale delle preghiere e delle formule liturgiche che conosceva a memoria. Essendo mio padre uno dei pochi ad aver concluso il ciclo delle elementari era un punto di riferimento per la lettura. Le sere d’inverno alcune famiglie del vicinato si riunivano a casa mia, dove, intorno ad un grande tavolo, sotto il quale un grande braciere ci scaldava durante le fredde sere invernali, per ascoltare mio padre che leggeva interi romanzi. Poi quando ho imparato a leggere è toccato a me. Era una vera tortura leggere ad alta voce i racconti del libro Cuore, perché a me veniva da piangere; non ricordo più per quale motivo, ma mi riconoscevo nel piccolo scrivano fiorentino. I miei erano contadini che non avevano la possibilità di comprare libri, ma la biblioteca, a 50 metri da casa, sopperiva egregiamente. Ho letto di tutto fino ai 18 anni, poi gli studi universitari prima e l’insegnamento dopo mi hanno quasi costretta a letture più settoriali; anche nel periodo di presidenza alla UILDM ho privilegiato la lettura di leggi, circolari, articoli e libri che riguardavano il mondo della disabilità.
Ora, finalmente, posso dedicarmi alla narrativa e alla lettura di riviste. Da piccola i libri mi facevano sognare mondi lontani e prefigurare una vita futura fatta di viaggi e di azioni eroiche. Oggi mi danno una chiave di lettura del mio vissuto passato e presente e le parole che io non avrei saputo trovare: è come se mettessi ordine nella mia vita, comprendendo da dove vengo e dove voglio andare. L’ultimo libro che ho letto, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, di Alessandro D’Avenia (Mondadori, 2016), è proprio questo: una riflessione sul senso della vita. Il destino non visto come fato, ma come destinazione, come la direzione che prendono le nostra azioni, come vengono indirizzate verso uno scopo.
Forse lo scopo della mia vita è proprio quello di condividere con gli altri la mia gioia di vivere. “La vita è l’arte dell’incontro”. Credo che qualcuno l’abbia già detto, ma ha forse meno valore copiare qualcuno?  L’originalità ad ogni costo non può essere sinonimo di narcisismo, di individualismo?  Il seguire le orme di un altro non è dell’uomo sociale?»

 

Data di creazione: 6 febbraio 2017
Ultimo aggiornamento: 7 febbraio 2017

Ultimo aggiornamento il 7 Febbraio 2017 da Simona