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Violenza sulle donne con disabilità: una conoscenza in divenire

a cura di Simona Lancioni 

Si è tenuto a Pisa lo scorso 8 febbraio il seminario conclusivo del Progetto Aurora in tema di “Violenza di genere e disabilità”. Un evento coinvolgente e ricco di spunti nel quale, tra le altre cose, è stata presentata una pubblicazione realizzata dall’Associazione Frida, promotrice del Progetto e del seminario, contenente i risultati di una ricerca sul tema trattato. Pubblichiamo, per gentile concessione, il pdf della pubblicazione, ed alcune riflessioni scaturite dai lavori seminariali.

Rosalba Taddeini e Milena Scioscia, dell’Associazione Frida, durante il seminario “Violenza di genere e disabilità”.
Rosalba Taddeini e Milena Scioscia, dell’Associazione Frida, durante il seminario “Violenza di genere e disabilità”.

Qualche giorno fa. «Sabato andrò ad un seminario sulla violenza nei confronti delle donne con disabilità.» Lo dico ad un’operatrice, ormai in pensione, che ha lavorato tanti anni, e con competenza, proprio nel settore della disabilità. «Perché, anche le donne disabili subiscono violenza?». Il siparietto si ripete quasi identico con un’altra donna, la madre di una persona con disabilità, che allo stupore unisce l’indignazione che anche la sola ipotesi di un fenomeno del genere riesce a suscitarle. «Sì, le donne con disabilità sono soggette sia a violenze simili a quelle subite dalle altre donne, sia ad altre legate alla presenza della disabilità.» Ma come è possibile che due persone, un’operatrice ed una madre, che, sia pure in modi diversi, il mondo della disabilità lo hanno frequentato per tanti anni e con costanza, non abbiano mai avuto percezione di questo fenomeno? L’invisibilità di questo tipo di violenza e la sua “normalizzazione” sono stati due dei concetti presi in esame nel seminario “Violenza di genere e disabilità”. La violenza sulle donne con disabilità risulta invisibile perché alcuni comportamenti abusivi o violenti non sono considerati tali. Può, ad esempio, accadere che il o la caregiver (la persona che presta assistenza) scelga i tempi e i modi del lavoro di cura solo in funzione propria, dando per scontato che alla persona disabile vadano comunque bene, e dispensandosi dal verificare se sia effettivamente così. E, dall’altra parte, è difficile per la persona con disabilità porsi in modo critico nei confronti del/la caregiver, che solitamente non percepisce un compenso per questo lavoro, e dal/la quale, vista la mancanza o l’insufficienza dei servizi pubblici, talvolta “dipende” per lo svolgimento di uno o più atti quotidiani della vita. Così finisce col “divenire normale”, ad esempio, che siano i familiari a disporre della pensione di invalidità, anche se la persona che ne è titolare è adulta e non ha una disabilità psichica o intellettiva. A tal proposito si può osservare che, anche ipotizzando che la famiglia versi in difficoltà economiche, dovrebbe essere la persona con disabilità a disporre che la pensione venga utilizzata per le spese familiari, e non altri in sua vece e senza il suo preventivo consenso. O, ancora, diventa “scontato” cedere al ricatto di una madre che vieta alla figlia disabile adulta di partecipare ad un progetto di vita indipendente in un gruppo appartamento, perché se la figlia se ne andasse di casa, il padre (dal quale la madre è legalmente divorziata) ne approfitterebbe per rientrare in possesso della propria abitazione, giacché l’assegnazione di quest’ultima è stata definita proprio in ragione dell’affidamento alla madre della figlia con disabilità. Situazioni come quelle descritte vengono considerate normali, o comunque tollerate, perché, in fondo, si continua a pensare che la persona con disabilità debba essere grata dell’assistenza che le viene rivolta, che sia in debito con qualcuno o, addirittura, con l’intera società, e che i diritti e la dignità, specie in epoca di crisi, possano essere ridefiniti al ribasso. In realtà situazioni come quelle descritte assolvono alla funzione di negare la soggettività della persona con disabilità, di esercitare su di essa un potere oppressivo, di sottoporla a controllo, e di mantenerla in una posizione di subordine. Tutto ciò non è “normale”, non è “fisiologico”, non è inevitabile. Tutto ciò è violenza.

«Le donne con disabilità costituiscono circa il 16% della popolazione femminile dell’Unione Europea: sono quindi circa 40 milioni le donne e le ragazze con disabilità. Di esse, è stato stimato che circa il 40% subisca o abbia subito violenza nel corso della propria vita. A livello mondiale, Human Right Watch ha stimato che le donne con disabilità fisica o mentale costituiscono circa il 10% della popolazione femminile: 300 milioni di donne che rischiano lo stesso spettro di violenze delle donne senza disabilità, ma il cui isolamento e dipendenza amplificano il rischio di subire violenza, la portata delle violenze e le loro conseguenze» (Il progetto Aurora. Violenza di genere e disabilità, a cura di G. Fioravanti, R. Taddeini, C. Pafundi, M. Spiotta e L.V. Losacco, San Miniato (PI), Associazione Frida, [2014], pagg. 7-8).

Nel cimentarsi con questo tema, l’Associazione Frida ha potuto constatare come, nella realtà, esistano pochissimi studi specifici ed essi siano stati prodotti perlopiù in altri Paesi. Per sopperire a questa lacuna le operatrici coinvolte nel progetto avevano pensato di condurre una ricerca intervistando alcune donne disabili e non vittime di violenza, ciò al fine di far emergere dalle dirette interessate le loro problematiche e le loro necessità peculiari. Tuttavia, constatando come tale idea fosse concretamente impraticabile, esse hanno provveduto a modificate l’impostazione originaria dell’indagine. Pertanto molte delle informazioni contenute nella ricerca sono state raccolte grazie a 20 interviste semi-strutturate rivolte ad operatori e ad operatrici che lavorano presso i servizi rivolti alle persone con disabilità. Altre informazioni sono e verranno raccolte attraverso lo sportello specializzato e dedicato all’accoglienza ed al sostegno di donne disabili vittime di violenza domestica e sessuale, anch’esso realizzato nell’ambito del Progetto Aurora. Se su questo tema non esiste ancora una conoscenza sufficientemente approfondita da consentire una descrizione, un’analisi completa, una sperimentata procedura di intervento e specifiche misure di prevenzione, si stanno ponendo le basi perché ne esista una in divenire.

Il Progetto Aurora ha sondato la violenza nei confronti delle donne con disabilità in una prospettiva di genere, ossia focalizzandosi principalmente sulla violenze agite dagli uomini sulle donne: violenze fisiche, violenze psicologiche, violenze sessuali e violenze economiche. Ebbene, le donne con disabilità, al pari delle altre donne, possono essere vittime di tutti questi tipi di violenze, ma va rilevato come, in presenza di una disabilità, essi possano assumere ulteriori e specifiche caratteristiche: in ambito sessuale può accadere, ad esempio, che le donne con disabilità siano sottoposte a sterilizzazione forzata o ad aborto coercitivo (due violazioni dei diritti umani alle quali, di solito, non sono soggette le altre donne); una donna senza disabilità può più facilmente allontanarsi dal partner che l’ha picchiata, quella con disabilità potrebbe ritrovarsi nella situazione di non avere alcuna possibilità di fuga, e di doversi rivolgere proprio al partner violento per essere aiutata nel soddisfacimento dei bisogni primari. Pur essendo la prospettiva di genere pertinente ed utile al fine dell’analisi del fenomeno in questione, essa non può considerarsi esaustiva. La violenza nei confronti delle donne con disabilità importanti (tali da richiedere assistenza alla persona) scaturisce molto frequentemente nell’ambito del lavoro di cura, ed essendo i lavori di cura, soprattutto in Italia, in larga misura demandati alle donne, non è infrequente che il soggetto abusante/violento sia anch’esso una donna. Risulta pertanto abbastanza evidente che per questi casi la prospettiva di genere, intesa come prevaricazione di un genere su un altro, non può essere applicata visto che la vittima e l’aggressore hanno lo stesso genere di appartenenza.

La violenza nei confronti delle donne (disabili e non) è un fenomeno culturale. Per questo motivo non convincono gli approcci che, assumendo come prospettiva privilegiata quella della sicurezza e dell’ordine pubblico, finiscono col limitarsi a interventi repressivi e sanzionatori. Né, tanto meno, convince l’approccio psichiatrico secondo il quale i violenti sono malati da curare. L’uomo violento non è un malato, costui è un uomo che è cresciuto in un ambiente sociale in cui sono contemplati due soli modelli di genere, che prescrivono da una parte la remissività e l’obbedienza alle donne, e dall’altra l’esercizio della forza e il dominio agli uomini. Va da sé che costui possa mal tollerare di doversi confrontare con donne che, avendo sviluppato una propria soggettività, non corrispondono alle sue aspettative. Ed è esattamente questo il punto: sono proprio i modelli di genere quelli che andrebbero cambiati, moltiplicati e non considerati rigidamente prescrittivi. Ciò al fine di lasciare a ciascun uomo ed a ciascuna donna la libertà di scegliere un personale modo di esprimere il proprio essere maschile ed il proprio essere femminile.

Se la violenza è un fenomeno culturale, sono parimenti culturali alcune delle barriere che ostacolano il suo superamento. Molte donne, infatti, hanno interiorizzato lo stesso modello fatto proprio dagli uomini violenti e tendono a colpevolizzarsi per le violenze subite: «… se mi picchia, forse me lo merito…». Manca, in molti casi, la consapevolezza dei propri diritti. Ci sono, purtroppo sempre più spesso, barriere di carattere economico: le donne con disabilità sono soggette ad una fortissima discriminazione lavorativa, ed il loro elevato tasso di disoccupazione ha pesantissime ripercussioni anche sulla loro autonomina economica. Non solo. Spesso la donna disabile che vuole allontanarsi da un partner violento non può permettersi di scegliere la soluzione abitativa più economica, ma sarà vincolata anche al rispetto di alcuni requisiti di accessibilità ambientale. Se poi la persona che esercita violenza è la stessa che provvede all’assistenza della donna con disabilità non autosufficiente nella soddisfazione dei bisogni primari, perché quest’ultima si possa allontanare è necessario poter contare su un servizio di assistenza alternativo. A ciò si aggiunga che difficilmente i centri antiviolenza sono predisposti e competenti per relazionarsi con donne con differenti disabilità (fisiche, sensoriali e intellettive), e che le strutture di accoglienza potrebbero essere inaccessibili.

L’esposizione delle conseguenze della violenza di genere è una piccola galleria degli orrori. Rimando, per i dettagli, al testo della ricerca. In questo spazio mi limito a segnalare che già nel 2005 il Consiglio d’Europa denunciava che, per le donne tra i quindici e i quarantaquattro anni, la violenza subita dal partner, marito, fidanzato, padre ecc., è la prima causa di morte e di invalidità permanente, prima del cancro, degli incidenti stradali e della guerra (La violenza subita dal partner prima causa di morte per le donne, La Repubblica.it, 28 ottobre 2005). Le conseguenze della violenza possono essere sia dirette che indirette, e comportare problemi a livello fisico, psicologico, sessuale e riproduttivo. Tali conseguenze tendono a cronicizzarsi nei casi in cui la violenza si protrae nel tempo fino a tradursi in disabilità invalidanti e permanenti.

Tutte le considerazioni esposte mostrano la complessità del fenomeno esaminato. Tale complessità non può essere affrontata compiutamente da singoli soggetti e strutture, ma rende necessaria l’attivazione di una rete che metta in comunicazione i movimenti e gli organismi contro la violenza sulle donne, i movimenti e gli organismi in difesa dei diritti delle persone con disabilità, le Forze dell’Ordine, i servizi sociosanitari e le scuole. Attraverso una rete del genere è possibile definire buone prassi e porre in essere azioni di prevenzione della violenza sulle donne (anche disabili), creare servizi di tutela e sostegno realmente accessibili per le vittime di violenza che sappiano supportare le donne (anche con disabilità) in percorsi di fuoriuscita dalla violenza stessa, garantendo loro alternative percorribili e realizzabili. Anche sotto questo profilo, la ricerca condotta nell’ambito del Progetto Aurora offre ottimi spunti e suggerimenti.

Sabato scorso, a Pisa, molte donne (e due uomini) si sono incontrate per parlare insieme della violenza nei confronti delle donne con disabilità. Non sono temi di cui ci si occupa volentieri, ma era palpabile, in ciascuna di esse, la determinazione a non volersi sottrarre. Eppure non è stato il dolore la tonalità prevalente di quell’incontro. Le tonalità prevalenti sono state la voglia di cambiare le cose e la solidarietà tra donne. Tornare a casa con la consapevolezza che esistano alternative alla passività e alla rassegnazione è una piccola magia che scalda il cuore. Grazie!

 

Per approfondire:

Il progetto Aurora. Violenza di genere e disabilità, a cura di G. Fioravanti, R. Taddeini, C. Pafundi, M. Spiotta e L.V. Losacco, San Miniato (PI), Associazione Frida, [2014], in formato pdf

Sito dell’Associazione Frida

Pagina in tema di violenza sulle donne con disabilità del Gruppo donne UILDM

Ultimo aggiornamento: 12 febbraio 2014

 

Ultimo aggiornamento il 12 Dicembre 2017 da Simona