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Donne con disabilità intellettiva: un’indagine sulla vita dopo la violenza

“La vita dopo la violenza” è uno studio di tipo qualitativo svolto da Inclusion Europe per indagare come le donne con disabilità intellettiva affrontano la violenza subita negli istituti. Pur essendo stato svolto nei Paesi Bassi, esso è interessante sotto diversi profili – quello dell’impostazione, quello metodologico, quello degli accorgimenti di accessibilità – anche a prescindere dal contesto nel quale è stato realizzato. La versione in linguaggio facile da leggere prodotta anche in lingua italiana potrebbe essere agevolmente impiegata anche nel nostro Paese per iniziare a parlare di violenza con le donne con disabilità intellettiva, insegnando loro a riconoscerla nelle sue diverse manifestazioni e a chiedere aiuto.

 

Una delle illustrazioni utilizzate versione facile da leggere de “La vita dopo la violenza”. Essa descrive l’incidenza degli abusi sessuali nelle donne in generale (33%), rispetto a quella delle donne con disabilità intellettive (61%) nei Paesi Bassi. Sia le donne senza disabilità che quelle con disabilità sono raffigurate da dieci sagome femminili, ma mentre tra le prime solo tre hanno la colorazione che, secondo la legenda, contraddistingue le donne abusate sessualmente, tra le donne con disabilità intellettiva le donne abusate sono sei.

«Le esperienze che abbiamo ci rendono la persona che siamo», lo ha dichiarato Lucy (nome di fantasia), 32 anni, una delle dieci donne con disabilità intellettiva che ha partecipato all’indagine “La vita dopo la violenza. Uno studio su come le donne con disabilità intellettiva affrontano la violenza subita negli istituti”. La ricerca è stata svolta nei Paesi Bassi da Inclusion Europe, un’organizzazione che rappresenta le persone con disabilità intellettiva e le loro famiglie in Europa, tra il 2016 e il 2018, ma non è stata pubblicizzata in Italia, presumibilmente perché non riguardava direttamente il nostro Paese, ed anche perché il rapporto di ricerca è in lingua inglese. In realtà lo studio è interessante sotto diversi profili – quello dell’impostazione, quello metodologico, quello degli accorgimenti di accessibilità – anche a prescindere dal contesto nel quale è stato realizzato, e per i materiali prodotti. Infatti, oltre al consueto rapporto di ricerca, sono state prodotte diverse traduzioni dello stesso in linguaggio facile da leggere nelle seguenti lingue: inglese, olandese, croato, lituano, rumeno e italiano (quest’ultima, supportata da illustrazioni, è stata realizzata a cura dell’Anffas, Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale). Questa traduzione potrebbe essere agevolmente impiegata anche nel nostro Paese per iniziare a parlare di violenza con le donne con disabilità intellettiva, insegnando loro a riconoscerla nelle sue diverse manifestazioni e a chiedere aiuto.

“La vita dopo la violenza” è un’indagine di tipo qualitativo che, come già accennato, ha coinvolto dieci donne con disabilità intellettiva accomunate dall’esperienza di aver subito abusi, di aver vissuto in un istituto, e di averlo lasciato per tornare a vivere nella comunità. Come spiega nella prefazione Senada Halilcevic, vice-presidente di Inclusion Europe e presidente di EPSA (la Piattaforma Europea degli Auto-rappresentanti), l’indagine prende le mosse dalla seguente domanda: “Cosa succede alle donne con disabilità intellettiva dopo aver subito violenza in un istituto?”. A questa ne sono seguite altre. In che modo la loro esperienza plasma le loro vite una volta che lasciano l’istituto per vivere nella comunità? Posto che non c’è modo migliore per trovare le risposte che parlare alle donne stesse, queste si sarebbero fidate del gruppo di ricerca, si sarebbero aperte ed avrebbero raccontato le loro esperienze così dolorose? La ricerca offre l’opportunità di ascoltare ciò che le donne con disabilità intellettiva dicono sulla violenza che è accaduta loro nelle istituzioni, ma anche nelle famiglie e nella comunità. Essa inizia con la comprensione di cosa sia la violenza nelle sue diverse forme, indaga come le donne l’hanno affrontata, e propone raccomandazioni su come migliorare la situazione. Se da un lato le testimonianze mostrano come la violenza sulle donne avvenga ovunque, dall’altro lato emerge anche la volontà di non permettere che le violenze e gli abusi subiti modellino interamente le vite di queste donne. «C’è vita dopo la violenza», osserva Halilcevic. Ed ecco alcuni aspetti interessanti: la ricerca non si concentra solo sulla violenza, indaga anche il “dopo” mettendo a fuoco cosa facilita e cosa ostacola il reinserimento di queste donne nella comunità; coinvolge direttamente le donne con disabilità intellettiva partendo dalla convinzione che, se messe nella condizione di farlo, queste donne siano in grado di riconoscere la violenza, di riferire della stessa e delle strategie, più o meno consapevoli, poste in essere per affrontarla; l’équipe ha instaurato con loro un rapporto di fiducia facendole sentire rispettate, ascoltate, credute e competenti della propria esperienza. La metodologia è stata sviluppata e realizzata insieme agli/alle auto-rappresentanti. Tutto è avvenuto secondo i termini e le condizioni concordate con le donne coinvolte nello studio.

Rispetto alle donne non disabili, le donne con disabilità corrono un rischio maggiore di subire forme gravi di violenza, subiscono violenza con tassi significativamente più alti, più frequentemente, più a lungo, in più modi e da parte di più autori; hanno un numero considerevolmente inferiore di percorsi per la sicurezza ed è meno probabile che riferiscano le proprie esperienze. Le statistiche dei Paesi Bassi rilevano un 33% di donne senza disabilità che subisce violenza sessuale, a fronte di un 61% di donne con disabilità. Ma, nonostante ciò, i programmi e i servizi per le donne con disabilità intellettiva o non esistono o sono estremamente limitati.

Quasi 1,2 milioni di bambini e adulti con disabilità vivono in istituti residenziali per soggiorni di lunga durata negli Stati membri dell’Unione europea (UE) e in Turchia. Gli istituti sono strutture di assistenza residenziale in cui i/le residenti sono isolati dalla comunità più ampia e/o sono costretti a vivere insieme; i residenti non hanno un controllo sufficiente sulle loro vite e sulle decisioni che li riguardano; e le esigenze dell’organizzazione stessa tendono a prevalere sui bisogni individualizzati dei residenti. Sapendo che l’incidenza della disabilità è maggiore nelle donne che negli uomini, centinaia di migliaia di donne europee corrono un rischio molto elevato di diverse forme di violenza in tali luoghi. Alcune di queste forme di violenza sono comuni a tutte le donne, mentre altre sono specifiche degli ambienti istituzionali in cui vivono. Ad esempio, le donne negli istituti sono sistematicamente private del diritto di crearsi una famiglia, essendo esposte alla contraccezione e alla sterilizzazione involontarie.

Un’altra delle illustrazioni utilizzate versione facile da leggere de “La vita dopo la violenza”. Essa mostra le ragioni per cui le persone con disabilità non raccontano la violenza subita. Un’unica figura disegnata emana tre balloon che contengono i seguenti pensieri: “Se lo dico a qualcuno, mi feriranno”, “Se lo dico a qualcuno, non mi crederanno”, e “Se lo dico a qualcuno, perderò il mio sostegno”.

La ricerca ha fatto riferimento alla violenza considerandola da tre diverse prospettive. Da un punto di vista legale per violenza si intendono tutte le violazioni e i crimini descritti nel diritto penale (come lo stupro, le percosse, gli abusi). La prospettiva psicologica include nella definizione di violenza tutti gli atti che sono percepiti dalla vittima come violenti, intimidatori e le forme di comportamento offensivo che oltrepassano i confini etici. In questa prospettiva, la violenza può includere molti più atti di quelli descritti nel diritto penale. Infine, la prospettiva sociologica guarda alla violenza nel contesto delle strutture sociali e degli equilibri di potere tra gruppi e individui. Ad esempio, le relazioni tra gli operatori sanitari e le persone che vivono in istituti sono fortemente influenzate dall’estrema dipendenza della persona disabile da chi presta assistenza, ma anche dalle esigenze organizzative, dalla cultura istituzionale e dallo status giuridico della persona che vive nell’istituto.

Diversi fattori sociali contribuiscono a mettere le donne con disabilità intellettiva in una situazione di vulnerabilità, soprattutto quando vivono in istituti. Ad esempio, queste donne possono dipendere – legalmente, finanziariamente o emotivamente – direttamente da possibili autori della violenza. Sono spesso isolate, sovente con poca o nessuna interazione sociale esterna, e temono che la denuncia di abusi possa portare a un’istituzionalizzazione più restrittiva, ritorsioni, ulteriore violenza (compresi abusi verbali e intimidazioni), e alla perdita del sostegno e degli aiuti che percepiscono. La loro mancanza di accesso effettivo alla giustizia, alla possibilità di segnalare l’accaduto e ai meccanismi di prevenzione, rende molto difficile per loro lottare contro la violenza. Soprattutto quando sono private della capacità giuridica, le barriere nel sistema giudiziario sono quasi insormontabili. E anche quando riescono a denunciare gli abusi, spesso sono percepite come non credibili.

Sebbene siano stati riscontrati anche casi di violenza fisica e sessuale diretta commessa dal personale o da altri ospiti degli istituti, la violenza che le persone hanno subito in contesti istituzionali riguardava principalmente lo squilibrio di potere. Altri che prendono decisioni riguardanti la vita delle persone con disabilità senza che queste abbiano voce in capitolo; norme e regolamenti emanati da altri senza il contributo delle persone interessate; l’essere trattate come parte di un sistema piuttosto che come individui; persone che non ricevono le cure di cui hanno bisogno, o che non hanno nessuno nella loro vita che si prenda cura di loro.

Dalle testimonianze delle donne con disabilità intellettiva che hanno partecipato studio sono emerse molte esperienze che non si adattavano bene alle tipologie di violenza contemplate nelle norme esistenti. Il team di ricerca ha quindi deciso di utilizzare la prospettiva psicologica, in cui la definizione di violenza comprende tutti gli atti che sono percepiti dalla persona che è stata danneggiata come violenti, intimidatori e offensivi. Questo approccio guidato dal soggetto ha permesso di prendere in considerazione tutte le esperienze che le donne con disabilità intellettiva hanno pensato quando hanno sentito la parola violenza. Attraverso questo processo, le donne hanno potuto esprimere un’ampia varietà di esperienze di violenza. Questi esempi sono stati disegnati su dei cartoncini con l’intento di aiutare altre donne a parlare delle proprie esperienze. Sono state illustrate nuove forme di violenza, creando una collezione di carte. Alla fine, nelle carte, oltre ai tipi di violenza più comuni, figuravano anche i seguenti: negligenza; essere costrette a prendere farmaci indesiderati o non ricevere informazioni adeguate sul farmaco; abuso finanziario; vedere impedita la possibilità di parlare per sé o per gli altri, ad esempio sentirsi dire di “stare zitta”; incarcerazione, essere private della libertà contro la propria volontà; violenza attraverso i social media, come lo stalking e l’utilizzo di dati o fotografie senza autorizzazione; avere meno opportunità delle altre persone, ad esempio di ricevere un’istruzione o di trovare un lavoro; non essere prese sul serio, non essere ascoltate; vedersi impedito di creare una propria famiglia. Nonostante la gamma di illustrazioni disponibili che ritraggono vari tipi di violenza, spesso le donne sentivano che mancavano dei disegni per riferirsi alle loro esperienze specifiche. Le carte si sono dimostrate utili per iniziare la conversazione, ma non offrono un quadro completo di ciò a cui pensano le donne con disabilità intellettiva quando pensano alla violenza. Sotto il profilo metodologico sono molto interessanti sia l’aspetto della flessibilità (la scelta di utilizzare la definizione di violenza proposta dalla prospettiva psicologica perché più adatta a cogliere/descrivere i vissuti delle donne del campione), sia quello dell’accessibilità (l’impiego dei disegni e della collezione di carte durante il lavoro di ricerca, e le traduzioni del rapporto di ricerca in linguaggio facile da leggere).

In alcuni casi, le donne hanno descritto situazioni in cui sono state vittime di un’altra persona che le ha ferite fisicamente o psicologicamente. In altri casi, non c’era un chiaro autore del reato: le donne si sono sentite maltrattate e trascurate, ad esempio, perché erano molto limitate nelle loro scelte a causa delle regole e dei regolamenti stabiliti da chi prestava loro assistenza. Considerando queste indicazioni, sono state individuate tre aree all’interno delle quali è stata inquadrata la violenza che le donne hanno percepito e ricordato: la violenza diretta (che si ha quando qualcuno/a cerca intenzionalmente di ledere qualcun altro/a, ed avviene da persona a persona), la violenza strutturale (che si verifica quando qualcuno/a viene leso/a a causa delle strutture sociali, dei sistemi di potere e controllo, o delle regole e regolamenti), e l’atteggiamento negligente (la persona è danneggiata dal fatto che la figura da cui dipende per l’assistenza non si cura di lei).

La violenza strutturale ha costituito la maggior parte della violenza subita dalle donne intervistate per la ricerca. Alcune delle caratteristiche di questa forma di violenza sono che non c’è una sola persona da incolpare, e che può avvenire senza che chi la agisce intenda danneggiare l’altra persona e spesso non sia nemmeno consapevole dell’impatto delle proprie azioni. Tali caratteristiche fanno sì che la violenza strutturale, pur essendo la forma più frequente di violenza subita da queste donne, spesso non sia riconosciuta, solo raramente venga sanzionata, e non sia facilmente modificabile. Le donne coinvolte nella ricerca volevano essere il più indipendenti possibile nella loro vita quotidiana, volevano fare le proprie scelte e fare qualcosa di utile nella loro vita, ma le strutture delle istituzioni in cui vivevano rendevano difficili da raggiungere questi obiettivi fondamentali. Le donne istituzionalizzate hanno manifestato di aver ben chiaro quanto poco potere avessero per controllare il proprio ambiente di vita, e questo suscitava in loro un senso di impotenza.

Dopo aver lasciato l’istituto molte donne hanno comunque dovuto far fronte a una serie di problemi. La maggior parte di loro ha lottato con le emozioni, sentiva ancora di non dover mostrare rabbia o tristezza, perché memori del fatto queste manifestazioni non erano benaccette nel contesto istituzionale; ha lottato per tornare ad avere fiducia nelle persone, c’è voluto tempo per costruire nuove connessioni; ha sviluppato un proprio “sesto senso” per decidere chi si prende davvero cura di loro o chi no. Molte di loro hanno ancora paura che un giorno debbano tornare alle loro situazioni precedenti.

Molte donne hanno dovuto riapprendere le competenze di base quando hanno lasciato l’istituto. È evidente che la deistituzionalizzazione richiede qualcosa di più del mero collocare qualcuno/a in una casa nella comunità. Occorre un supporto personalizzato per superare le esperienze passate e la visione di mondo maturata con le esperienze negative. Con un supporto adeguato alcune di queste donne con disabilità intellettiva hanno raggiunto risultati che la gente pensava sarebbero stati impossibili per loro. Sfortunatamente, questo tipo di supporto non era disponibile per tutte. Il successo delle esperienze positive sembra correlato ai quattro fattori: il fatto che queste donne sono circondate da persone che le ascoltano e capiscono ciò che ognuna potrebbe aver vissuto; la circostanza che le persone di supporto sono attente a come le donne sono viste dagli altri, promuovono un’immagine positiva di loro, e riducono così la loro vulnerabilità alla violenza strutturale; il fatto che intorno alle donne si è formato un cerchio premuroso e protettivo che cerca di impedire che possano essere ulteriormente ferite; la circostanza che le persone nella vita di queste donne riconoscono i loro i talenti, e trovano modi per compensare positivamente i ruoli dipendenti e le vulnerabilità che le donne hanno a causa della loro disabilità.

Interpellate su cosa facilita loro la vita dopo aver lasciato l’istituto le donne del campione hanno risposto così: lasciami essere chi sono, dammi la sensazione di stare bene; fammi commettere errori e riprovare; ho bisogno di persone intorno a me di cui mi fido e con cui vada d’accordo; le persone hanno bisogno di capire che ci sono cose che devo reimparare o che devo ricordare spesso; conoscimi, allora capirai perché reagisco in certi modi e cosa è importante per ME; aiutami ad assicurarmi di non tornare mai più all’istituto; prendimi sul serio; credi in me; supportami nelle cose che mi danno più fiducia; ho bisogno di sentirmi al sicura; voglio prendere le mie decisioni, lasciami fare; voglio essere indipendente, non dirmi cosa fare, parla con me; anche con un buon supporto, potrebbe volerci molto tempo per lasciar andare le esperienze passate, sii paziente con me; aiutami ad andare più in là di quanto penso di poter fare, ma non affrontare troppe cose alla volta, piccoli passi; aiutami a ottenere ciò che voglio nella vita; aiutami ad avere successo così vedo che posso farcela; non rinunciare a me; posso mettere alla prova le persone per vedere come reagiscono; aiutami a trovare il mio posto, dove le persone mi apprezzano e mi rispettano.

Anche in Italia le donne con disabilità intellettiva sono più esposte alla violenza delle altre donne ed anche delle donne con altri tipi di disabilità. Sul fronte dell’autodeterminazione e dell’auto-rappresentanza persone con disabilità intellettiva sono attivi progetti importanti e apprezzabili (qui, ad esempio, quello dell’Anffas). Non abbiamo invece notizia di iniziative in tema di violenza specificamente rivolte a donne con disabilità intellettiva (tranne una intrapresa nell’aprile 2019 dall’associazione “La nostra comunità” di Milano, ma della quale non conosciamo gli sviluppi). Il lavoro svolto nei Paesi Bassi può costituire una buona base da cui partire per fare qualcosa di simile anche nel nostro contesto. È una nostra responsabilità rendere queste donne meno impreparate e dunque meno vulnerabili alla violenza.

Simona Lancioni
Responsabile del centro informare un’h di Peccioli (Pisa)

 

Estremi delle pubblicazioni:

Inclusion Europe, Life after violence. A study on how women with intellectual disabilities cope with violence they experienced in institutions, Bruxelles, 2018. In lingua inglese.

[Inclusion Europe], La vita dopo la violenza. Una ricerca sulla violenza contro le donne con disabilità intellettiva negli istituti, versione facile da leggere in lingua italiana con illustrazioni, [a cura di Anffas, 2018].

 

Vedi anche:

Inclusion Europe

Sezione del sito di Inclusion Europe dedicata al progetto “Life after violence/Women empowerment”.

A questo link, oltre a quella in lingua italiana, sono disponibili anche le versioni facili da leggere nelle seguenti lingue: inglese, olandese, croato, lituano e rumeno.

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.

 

Ultimo aggiornamento: 8 ottobre 2020

Ultimo aggiornamento il 8 Ottobre 2020 da Simona