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Donne con disabilità, lavoro e discriminazione di genere

Se la discriminazione di genere non riguardasse anche le donne con disabilità, allora dovremmo aspettarci dati occupazionali simili per gli uomini e per le donne disabili. Ma i numeri ci dicono che lo svantaggio occupazionale delle donne con disabilità rispetto agli uomini nelle stesse condizioni è pari al 17,4%. La situazione è così drammatica che persino il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità si è sentito in dovere di richiamare il nostro Paese per questa ed altre discriminazioni legate al genere; ma, nonostante ciò, questo tipo di discriminazioni, che vanno a sommarsi a quelle prodotte dalla disabilità, continuano ad essere sotto percepite, sottovalutate e, nei fatti, incontrastate.

 

«Il lavoro è stato determinante, se non ci fosse stato il lavoro la prospettiva sarebbe stata quella che aveva in mente mia madre, sarebbe stata proprio la negazione di una vita mia. Il lavoro è stato vivere la mia vita. Poi, quando ho iniziato a lavorare, anche nell’ambito della famiglia hanno cominciato a pensare “questa non solo è quella che non si fa assistere dalla famiglia, dai fratelli, ma addirittura aiuta lei stessa, porta i soldi a casa”. Questo l’ho sentito molto, perché comunque la mentalità era quella, quindi diciamo che io mi sono sempre sentita di sfidare e vincere un destino che era già segnato, predeterminato, e ho sempre fatto molta fatica.»
Testimonianza di una donna con disabilità raccolta nell’ambito della ricerca effettuata da D. Bucci, Z. Bassetti e M. Regnicoli, “Il percorso lavorativo delle donne con disabilità. Persone con disabilità. Percorsi, risorse e ostacoli per le Pari opportunità”, Roma, Consorzio Integra, 2010, pag. 102.

Una giovane donna con sindrome di Down prepara un cappuccino per i clienti del bar per cui lavora.
Una giovane donna con sindrome di Down prepara un cappuccino per i clienti del bar per cui lavora.

Che un gradino sia un ostacolo alla mobilità delle persone che si spostano in sedia a rotelle è un concetto che si acquisisce facilmente. Che un sito internet non costruito con i criteri di accessibilità del web sia inaccessibile alle persone cieche loro lo scoprono subito poiché non riescono ad accedere alle informazioni in esso contenute. Molte delle diverse difficoltà ingenerate dalla presenza delle differenti disabilità si caratterizzano per essere sperimentabili nella quotidianità delle persone disabili stesse. Lo stesso non si può dire invece delle discriminazioni legate al genere riscontrate anche tra le persone disabili, discriminazioni che, per essere rilevate, richiedono uno sforzo comparativo tra le condizioni di vita degli uomini con disabilità e quelle delle donne con disabilità. Probabilmente è proprio la mancanza di un’acquisizione esperienziale immediata una delle maggiori cause per cui è facile trovare tante persone disabili impegnate nella rimozione delle discriminazioni prodotte dalla disabilità, e pochissime persone disabili (davvero poche!) attive nel contrasto a quelle generate dalla combinazione delle due variabili del genere e della disabilità. Ma non è solo questo. È che, a parte le occasionali iniziative promosse da singole persone o da associazioni, nelle scuole manca una riflessione sui generi, accade così che i ragazzi e le ragazze crescano con l’erronea convinzione che il genere sia una variabile neutra, ininfluente sulle loro vite, e non si può certo affermare che la generalità delle famiglie si premurino di correggere questa svista. Lo scarso interesse per questi temi è legato anche all’interpretazione del femminismo, o, più precisamente, dei femminismi, dei quali le giovani donne (non solo quelle disabili) tendono a ricordare gli eccessi e gli errori (che pure ci sono stati), ma non le conquiste di cui anch’esse godono e che considerano definitivamente acquisite (cosa, invece, tutt’altro che scontata). «Le femministe sono donne che vogliono fare gli uomini» rivela una donna con disabilità motoria (sulla trentina, diplomata, occupata), e non è una battuta. La scarsa consapevolezza delle molteplici disparità che ancora persistono tra uomini e donne (disparità ampiamente documentate) induce molte persone a comportarsi come se la parità di genere fosse stata raggiunta e le donne non avessero più niente da conquistare o da difendere, e come se tali discriminazioni non colpissero anche le donne con disabilità. Ma è davvero così? Proviamo a capirlo a partire da uno degli indicatori più significativi sotto il profilo dell’emancipazione sia per le donne, sia per le persone con disabilità: il livello di occupazione. Se la parità di genere fosse stata davvero raggiunta non ci dovrebbero essere scostamenti significativi tra il livello di occupazione maschile e quello femminile, ma l’Istat (l’Istituto Nazionale di Statistica) fornisce dati diversi. A gennaio 2017 il tasso di occupazione maschile per la classe di età 15-64 anni era pari al 67%, quello femminile, per la stessa classe di età, era invece del 48,1% (Istat, Occupati e disoccupati, 2 marzo 2017). Se la discriminazione di genere non riguardasse anche le donne con disabilità, allora anche riguardo alle persone con disabilità dovremmo aspettarci dati occupazionali simili per gli uomini e per le donne. Ma, ancora una volta, l’Istat dice altro. I dati più recenti che abbiamo trovato riguardano il 2013, anche se sono stati divulgati dall’Istat il 21 luglio 2015, essi sono contenuti in una relazione denominata “Inclusione sociale delle persone con limitazioni funzionali, invalidità o cronicità gravi”. L’Istat ha reso noto che, in Italia, nel 2013, tra i 15-64enni con limitazioni funzionali gravi lavora una persona su cinque. La circostanza che i dati raccolti siano disaggregati per sesso consente di misurare le differenze di genere nella partecipazione al mercato del lavoro: tra chi ha limitazioni funzionali, invalidità o cronicità gravi «risulta occupato il 52,5% degli uomini (64,6% sulla popolazione totale) contro il 35,1% delle donne (45,8% dell’intera popolazione). Lo svantaggio femminile è più accentuato per le donne di 45-64 anni, tra le quali lavora solo il 31,3%. Specularmente tra le donne è molto elevata la quota di “altri inattivi” che includono la condizione di casalinga (36,3%), mentre tra gli uomini è solo del 5,3% analogamente a quanto avviene nella popolazione generale» (op.cit. pag. 5, grassetti nostri nella citazione). Lo svantaggio occupazionale delle donne con disabilità rispetto agli uomini nelle stesse condizioni è dunque pari al 17,4%. Tra gli ostacoli principali all’integrazione nel mondo del lavoro il 22,5% della popolazione residente in Italia indica la mancanza di opportunità lavorative, la quota scende al 19,3% nel campione oggetto di analisi, e si dimezza tra chi ha limitazioni funzionali gravi (11,1%) che, invece, indica restrizioni soprattutto per le proprie condizioni di salute. «Inoltre, tra questi ultimi, una piccola quota (il 3,6%, contro lo 0,4% della popolazione totale) riferisce come ostacolo all’integrazione lavorativa la difficoltà a raggiungere o ad accedere al luogo di lavoro» (op.cit. pag. 7).

È importante comprendere che le discriminazioni di genere non si sostituiscono a quelle determinate dalla disabilità, ma si sommano ad esse producendo un pesantissimo effetto moltiplicatore. La donna con disabilità avrà così le stesse difficoltà incontrate dagli uomini disabili nell’accedere al mondo del lavoro (pregiudizi riguardo alla disabilità, inaccessibilità degli ambienti e delle strumentazioni di lavoro, mancanza di servizi per la mobilità, carenza dei servizi di assistenza alla persona…), ma ne avrà anche di ulteriori dovute al suo essere donna (è ancora facile trovare famiglie molto più iperprotettive con le donne rispetto ai maschi disabili, famiglie che invece di incoraggiare l’indipendenza personale della donna disabile la scoraggiano, inibiscono, posticipano in tutti i modi; sessismo; penalizzazioni se la donna pensa di crearsi una famiglia propria con dei figli; una diseguale distribuzione dei carichi di cura che, unita alla scarsità di servizi di assistenza e per l’infanzia, la obbliga a ridurre o ad abbandonare il lavoro; minore retribuzione rispetto agli uomini a parità di mansioni…). Ed il guaio è che, qui in Italia, di questi meccanismi, una larga maggioranza delle donne con disabilità non ha alcuna consapevolezza, ed è convinta che, alla fine, tutti i problemi delle donne disabili derivino esclusivamente dall’avere una disabilità. Non avendone consapevolezza, queste donne non si preoccupano di contrastarli. La conseguenza perversa di questa situazione è che se le dirette interessate non si disporranno a rivendicare e difendere i propri diritti ed interessi in quanto donne, ben difficilmente qualcun altro/a potrà farlo per loro, e la loro discriminazione multipla rimarrà inalterata.

I dati dell’Istat ci forniscono un’istantanea del fenomeno della minore occupazione delle donne con disabilità, ma essi non ci consentono di cogliere le dinamiche all’origine di questo fenomeno, né di conoscere altri aspetti fondamentali per descriverlo nella sua complessità. Per rilevare questi ulteriori elementi è necessario svolgere indagini di tipo qualitativo che coinvolgano le stesse donne con disabilità. Non abbiamo trovato, su questa materia, indagini qualitative svolte a livello nazionale, ne abbiamo trovato alcune, peraltro non recentissime, relative ad aree territoriali ben circoscritte (le provincie di Bologna e Torino, e la regione Lazio). Da queste abbiamo tratto le osservazioni che seguono.

La ricerca “Donne, disabilità e lavoro. Visioni differenti. La condizione delle donne disabili nel mondo del lavoro nella provincia di Bologna” (rapporto di ricerca redatto da Rita Bencivenga, Genova, Studio Taf, 2007) è stata effettuata attraverso 50 interviste narrative rivolte a donne con disabilità di età compresa tra i 23 e i 73 anni. Il metodo scelto non consente di “quantificare” le risposte, ma permette di rilevare alcuni elementi interessanti. Ne indichiamo diversi che riteniamo significativi. Alcune donne con disabilità vivono la disabilità e le difficoltà ad essa connesse come un problema personale, ed hanno una limitata consapevolezza dei propri diritti; diverse descrivono ambienti di lavoro poco accessibili e la difficoltà ad accedere agli aggiornamenti professionali; alcune denunciano rapporti conflittuali, soprattutto con le altre donne presenti nell’ambiente lavorativo, ma non solo; altre parlano di minori aspettative da parte dei datori di lavoro, e di minore propensione delle famiglie a favorire la loro indipendenza personale; frequentemente si riscontra la dipendenza dalle reti informarli (parenti, amici) per gli spostamenti. Affermava, a quest’ultimo proposito, un’intervistata: «… è stato un po’ l’errore della mia vita quello di sopperire diciamo alla mancanza di autonomia con l’aiuto, con il sostegno delle persone affettivamente legate a me, poiché finché hai il ragazzo, l’amica che ti accompagna in macchina tu la lotta per i servizi pubblici accessibili non la fai più di tanto perché dici, io il problema egoisticamente l’ho risolto per i cavoli miei ma sempre con l’aiuto del fidanzato, del marito, del figlio, del padre» (op. cit. pag. 66).

Per l’indagine “Due volte differenti. L’inserimento al lavoro delle donne con disabilità” (a cura di Assot – Agenzia per lo Sviluppo del Sud Ovest di Torino, Orbassano, Assot, 2009) sono state raccolte le esperienze di vita di 12 donne con disabilità di età compresa tra i 22 e i 56 anni. Alcuni aspetti emersi: la difficoltà a conciliare la vita lavorativa con gli impegni familiari (specie in relazione alla cura dei figli); maggiori problemi legati all’inserimento o al reinserimento nel mercato del lavoro per le donne in gravidanza, e per quelle che hanno un’età “avanzata” (dopo i quarant’anni); la dipendenza dal supporto delle reti familiari e amicali che penalizza chi ne è sprovvista.

Anche la ricerca “Il percorso lavorativo delle donne con disabilità. Persone con disabilità. Percorsi, risorse e ostacoli per le Pari opportunità” (di Daniela Bucci, Zaira Bassetti e Marica Regnicoli, Roma, Consorzio Integra, 2010) utilizza le interviste narrative. Essa ha coinvolto 50 donne con disabilità di età compresa tra i 22 e i 63 anni. Vediamo qualche aspetto rilevato. Le donne intervistate hanno mostrato un elevato grado di consapevolezza dell’origine sociale della disabilità. In generale la famiglia è – nel bene o nel male – sempre presente e svolge un ruolo fondamentale nella vita delle donne coinvolte nell’indagine. Nei confronti delle donne disabili sono stati riscontrati i seguenti atteggiamenti da parte dei genitori: protezione, sostituzione, rifiuto e sostegno; atteggiamenti che – a seconda dei casi – possono inibire o facilitare lo sviluppo personale di queste donne anche in materia di lavoro. Molte intervistate esprimono una sostanziale sfiducia nell’operato dei servizi pubblici per l’impiego, e sollevano numerosi dubbi circa le loro reali capacità di collocamento. Tra le critiche: eccessiva burocrazia, discriminazioni, personale poco preparato sui temi della disabilità, proposte di lavoro inadatte alle persone da collocare. Racconta una donna con disabilità visiva: «Questa cosa la racconto sempre perché è comica: ho portato il curriculum e l’unico posto per cui sono stata chiamata è stato quello da magazziniere per cui serviva la patente di guida… e questo è proprio allucinante!» (op. cit. pag. 75). Si riscontrano basse aspettative, “non riconoscimento” e sottovalutazione delle capacità della donna disabile da parte di colleghi e superiori; è ancora abbastanza diffuso il pregiudizio che la persona con disabilità lavori giusto per occupare il tempo. Affiora anche la solitudine e l’isolamento delle intervistate nel combattere queste discriminazioni, e la fatica di dover dare risposte individuali a problemi socialmente determinati. Ci sono poi la carenza dei servizi di conciliazione della vita famigliare con quella lavorativa, i problemi con i modelli organizzativi che spesso non tengono conto dei diversi tempi delle persone disabili, la scarsità dei servizi per la mobilità delle persone con disabilità, l’insufficienza dei servizi di assistenza personale, i minori servizi per chi abita in provincia rispetto a chi abita in città, la mancanza di servizi pubblici come causa di impoverimento per la persona disabile e la sua famiglia.

In questi lavori sono rilevate, ovviamente, anche esperienze positive e gratificanti, da assumere come riferimento, ma in questa sede abbiamo voluto sottolineare alcuni degli aspetti che ancora rimangono irrisolti, poiché, se vogliamo cogliere i fattori che determinano il basso livello occupazionale delle donne con disabilità, sono proprio le criticità ciò a cui dobbiamo prestare una specifica attenzione.

Se le indagini menzionate hanno considerato l’aspetto del lavoro delle donne con disabilità senza porre particolari vincoli rispetto alla modalità di insorgenza della disabilità, o a specifiche patologie disabilitanti, altri lavori, invece, hanno messo l’accento proprio su questi aspetti, e li hanno utilizzati per circoscrivere il proprio ambito d’interesse. Vediamo due esempi. Il primo è rappresentato dall’ANMIL (Associazione Nazionale fra Lavoratori Mutilati e Invalidi del Lavoro) che, a partire dal 2006, ha promosso indagini, iniziative e studi volti ad indagare e raccontare la condizione della donna infortunata: questa associazione presta una regolare attenzione alle donne con disabilità, ma solo a quelle divenute disabili per cause professionali (tutti i lavori sono fruibili da una sezione dedicata, “L’ANMIL per le donne”, situata nel sito istituzionale dell’associazione stessa). Il secondo esempio è rappresentato dall’AISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla). La sclerosi multipla è una malattia neurodegenerativa demielinizzante, cioè con lesioni a carico del sistema nervoso centrale, che colpisce le donne in numero doppio rispetto agli uomini. Anche l’AISM si è occupata del lavoro delle donne con disabilità, ma ha centrato la propria riflessione prevalentemente sulle donne con sclerosi multipla. Laura Pasotti, curatrice dell’indagine “Donne, sclerosi multipla e lavoro. Una corsa a ostacoli” (pubblicata su «SM Italia», n. 1/2016), introduce così il suo lavoro: «difficoltà di accesso, stipendi più bassi, politiche di conciliazione inesistenti. Se le lavoratrici sono discriminate, quelle disabili lo sono due volte» (op. cit. pag. 15). Da essa emerge un ulteriore aspetto poco conosciuto: la stragrande maggioranza delle donne con sclerosi multipla sceglie di non parlare della prioria malattia al proprio datore di lavoro – sinché la patologia lo consente – per il timore che le aziende non siano preparate a gestire la situazione (cosa molto spesso vera).

Marzia, una giovane con disabilità, utilizza il computer per comunicare (immagine tratta dalla mostra fotografica “Tra i corpo e gli affetti” realizzata dalla UILDM sezione di Bergamo, foto di Pietro Sparaco).
Marzia, una giovane con disabilità, utilizza il computer per comunicare (immagine tratta dalla mostra fotografica “Tra i corpo e gli affetti” realizzata dalla UILDM sezione di Bergamo, foto di Pietro Sparaco).

Il tema “donne con disabilità e lavoro” può essere affrontato anche attraverso un “approccio laterale”, ossia indagando gli aspetti ad esso correlati. Un interessante esempio di questo tipo di impostazione è fornito da “Ciao!Women. Communication via It for Adults Online”, un originale progetto della provincia di Genova, co‐finanziato dall’Unione Europea (“Programma Socrates”), realizzato nel periodo 2005-2007, e volto ad indagare l’esperienza delle donne nell’uso delle tecnologie informatiche. Ebbene, pur non essendo incentrato sul tema del lavoro, in esso emerge con chiarezza che, tra le diverse necessità menzionate dalle donne coinvolte per motivare l’impiego di queste tecnologie, quella legata al mondo del lavoro è in assoluto «la causa prima che spinge al primo approccio verso le ICT [Information and Communications Technology, vale a dire: le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, N.d.R.]», scriveva Rita Bancivenga nelle considerazioni conclusive del rapporto di ricerca. La relazione “Donne con disabilità e tecnologie informatiche”, redatta da Piera Nobili per il CERPA (Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell’Accessibilità), nell’ambito dello stesso progetto, conferma come anche nell’esperienza delle donne con disabilità, riguardo al profilo considerato, sia presente la necessità di trovare o gestire un lavoro, alla quale però si sommano le necessità «di non sentirsi sole (occupazione del tempo), di avere l’occasione di sentirsi in contatto con il mondo (figli/e e amici/che lontani/e, informazione, ricerche, fare nuove conoscenze ecc.), utili per se stesse (autonomia/indipendenza) e per gli altri (familiari, colleghe/i, persone con disabilità), di coltivare propri interessi altrimenti difficilmente raggiungibili. [Osserva Nobili che] queste [ultime] appaiono come le motivazioni più forti all’impiego non solo del computer ma anche del cellulare, del telecomando e degli automatismi domestici in generale» (op. cit. pag. 7). Questo ci fa comprendere che investire nell’alfabetizzazione informatica/tecnologica delle donne con disabilità, attraverso percorsi formativi personalizzati «sia per tempi che per modalità» (op. cit. pag. 11), è certamente un modo per accrescere la loro autonomia, allargare gli spazi della loro autodeterminazione, nonché agevolare il loro ingresso/permanenza/reintegro nel mercato del lavoro.

Oltre all’“approccio laterale”, ve ne è un altro che potremmo definire “approccio intersettoriale”, esso consiste nel considerare simultaneamente le diverse sfere della vita della persona (non solo quella lavorativa), di modo che gli interventi nei diversi ambiti risultino coordinati. Rientra in questa tipologia un importante e apprezzabile progetto scientifico quadriennale promosso dall’Università di Genova nel settembre 2016, e denominato RISEWISE (RISE Women with Disabilities in Social Engagement, ovvero “Portare le donne con disabilità verso l’inclusione sociale”). Esso si propone di trovare strategie per migliorare la vita sociale, lavorativa e familiare delle donne con disabilità. Tra i diversi approcci possibili, questo deve considerarsi preferibile poiché è abbastanza limitante (ed anche irrealistico) pensare di intervenire in una sfera operativa e relazionale (come, ad esempio, quella lavorativa), senza che ciò comporti/richieda modifiche anche nelle altre sfere della vita di una persona (ad esempio, quella sociale e familiare). Ciò è sempre vero, ma lo è a maggior ragione se per mettere la persona con disabilità nella condizione di realizzare il proprio progetto di vita è necessario predisporre accorgimenti, supporti e servizi specifici. Questo tipo di approccio è, peraltro, lo stesso utilizzato nel Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea (adottato dall’Assemblea Generale del Forum Europeo sulla Disabilità nel 2011), un testo paradigmatico che, essendo stato elaborato dalle stesse donne disabili, andrebbe assunto come riferimento per tutte le politiche in materia di genere e disabilità.

Per completare il quadro è necessario aggiungere che, nell’agosto 2016, il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità ha espresso preoccupazione per la mancanza nel nostro Paese di una sistematica integrazione delle donne e delle ragazze con disabilità nelle iniziative per la parità di genere, così come in quelle riguardanti la condizione di disabilità; da ciò è scaturita la raccomandazione allo Stato parte Italia (che, lo ricordiamo, ha ratificato la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità con la Legge 19/2009) di provvedere a invertire la rotta sia sugli aspetti generali legati al genere, sia su altri espressamente menzionati; tra le diverse raccomandazioni del Comitato ONU, anche quella di «attuare misure specifiche per affrontare il basso livello occupazionale delle donne con disabilità» (punto 70). Da allora è passato quasi un anno. Cenni di ricezione delle raccomandazioni espresse? Non pervenuti.

 

Simona Lancioni
Responsabile del centro Informare un’h di Peccioli (PI)

 

Leggi anche:

La disabilità e le aree della maggiore discriminazione femminile, «Informare un’h», 15 maggio 2017.

Il centro Informare un’h promuove la lettura, l’adozione e l’applicazione di questo importante strumento, ed invita caldamente tutte e tutti a contribuire alla sua divulgazione:
Forum Europeo sulla Disabilità,
Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea. Uno strumento per attivisti e politici, adottato a Budapest il 28-29 maggio 2011 dall’Assemblea Generale del Forum Europeo sulla Disabilità (EDF) in seguito ad una proposta del Comitato delle Donne dell’EDF, approvato dalla Lobby Europea delle Donne, revisione realizzata alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle Persone con Disabilità, versione in lingua italiana, traduzione a cura di Simona Lancioni e Mara Ruele, Peccioli (PI), Informare un’h, 2017, p. 71, in formato pdf.

Ultimo aggiornamento: 10 luglio 2017

 

Nota integrativa dell’11 luglio 2017:

Apprendiamo con piacere che nel II Programma di Azione Biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità approvato ieri pomeriggio (10 luglio 2017) dal Consiglio dei Ministri, e che ora dovrà passare alla valutazione della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, per tornare poi in Consiglio dei Ministri, prima della firma del Presidente della Repubblica, in materia di “Lavoro e occupazione” (Linea di intervento 5) sono previste le seguenti “Azioni specifiche”:

nelle proposte programmatiche, Azione 1, Individuazione di interventi specifici di miglioramento e integrazione normativa, lettera G (pag. 49):
“definire misure di sostegno e un sistema di incentivi per la contrattazione di primo e secondo livello in materia di flessibilità e conciliazione dei tempi di vita-cura-lavoro per le persone con disabilità o malattie gravi e croniche progressive, o lavoratori caregiver di persone con gravi disabilità”;

nelle proposte programmatiche, Azione 2, Interventi sull’attività del collocamento mirato, lettera N (pag. 51):
“individuare, in sede di verifica e riprogrammazione del PON “Sistemi di politiche attive per l’occupazione” (FESR), iniziative specifiche e trasversali per incrementare l’occupazione e ridurre il tasso di inattività delle donne con disabilità, e per l’aumento dell’autoimpiego e dell’imprenditorialità femminile”.

Seguiremo gli sviluppi.

 

Ultimo aggiornamento: 11 luglio 2017

Ultimo aggiornamento il 11 Luglio 2017 da Simona