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Internate in manicomio perché “non conformi”

di Stefania Delendati*

Un viaggio di dolore ed emarginazione lungo quasi un secolo, dentro ai manicomi italiani, dove centinaia di donne furono rinchiuse, spesso senza tornare mai più ad una vita normale. Un viaggio nei pregiudizi verso la femminilità che “non si adeguava alle aspettative”, una storia in cui gli ospedali psichiatrici gestirono l’“anormalità” di tante donne per farne perdere le tracce, con la politica sanitaria quale dispositivo disciplinare, pratica che ha permeato la cura delle malattie mentali fin dentro l’Italia repubblicana, lasciando strascichi scoperti anche dopo la “Legge Basaglia” del ’78.

Anni Venti del Novecento: donne internate nel Manicomio di Sant’Antonio Abate a Teramo.

Questo è un viaggio lungo quasi un secolo, il secolo scorso. Un viaggio fatto di dolore ed emarginazione dentro ai manicomi italiani, dove centinaia di donne furono rinchiuse, spesso senza tornare mai più ad una vita normale. È una storia che attraversa due guerre mondiali, due dopoguerra e una dittatura, muovendosi su diversi piani. Ci sono i pregiudizi verso la femminilità che non si adeguava alle aspettative, per cui bastava condurre uno stile di vita un po’ fuori dagli schemi precostituiti per finire recluse, una deriva ideologica che trovò il culmine nel ventennio fascista. «Errori della fabbrica umana» al pari delle donne traumatizzate dai conflitti, non si perdonava loro l’incapacità di superare lo choc. Ancora una volta gli ospedali psichiatrici furono i luoghi deputati a gestire l’“anormalità” per farne perdere le tracce. La politica sanitaria come dispositivo disciplinare, una pratica che ha permeato la cura delle malattie mentali fino ai primi anni dell’Italia repubblicana e lasciando strascichi scoperti anche dopo la Legge 180 del ’78, ben più nota come “Legge Basaglia”.

Il primo Novecento, la Grande Guerra e gli ospedali psichiatrici
Era la Legge numero 36 del 1904 (Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati) a regolamentare il ricovero coatto di «persone alienate pericolose a sé e agli altri e di pubblico scandalo». Una volta entrata nell’ospedale psichiatrico, la persona veniva iscritta nel casellario giudiziario, come previsto dall’articolo 604 del Codice di Procedura Penale, e perdeva tutti i diritti civili.
Queste normative erano la cornice dentro cui si muoveva il trattamento delle donne (ma anche degli uomini) negli ospedali per la cura delle malattie mentali all’inizio del secolo scorso. Nel 1913 arrivarono nel nostro Paese i risultati del primo Congresso Internazionale di Eugenetica, tenutosi a Londra l’anno precedente, secondo cui era doveroso rinchiudere coloro che non erano più adeguati all’evoluzione sociale dei tempi. Fu quello che viene definito come «grande internamento manicomiale», iniziato alla fine dell’Ottocento e proseguito nei decenni immediatamente successivi, quando su tutto il territorio nazionale furono edificati numerosi ospedali psichiatrici.
Il loro scopo era assistenziale, ma soprattutto di mantenimento dell’ordine pubblico e tutela della moralità, attraverso la presa in carico dei soggetti considerati «socialmente pericolosi». L’Italia, malgrado avesse un Comitato per gli Studi di Eugenetica preposto all’individuazione dei fattori che potevano determinare il decadimento della “razza” dal punto di vista fisico e psichico, non era in sintonia con gli eccessi di crudeltà cui si assisteva nell’Europa settentrionale; da noi si era più orientati al recupero morale, anche se questo approccio, come vedremo, non arginò il fenomeno della cancellazione sociale di parte della popolazione.
Venne cancellata anche Ida Peruzzi, moglie di Emilio Salgàri. Lui soffriva di depressione, ma fu lei a finire nel manicomio piemontese di Via Giulio e poi a Collegno. Ricoverata il 19 aprile 1911 per «erotismo fisiologico esagerato», nell’ospedale psichiatrico da cui non uscirà più, l’anno stesso apprese del suicidio del marito. La sua è una vicenda conosciuta per la fama di Salgàri, ma molte di più sono le storie di donne dimenticate, rinchiuse magari perché si erano ribellate alle umiliazioni e alle percosse in famiglia. C’erano contadine che l’opinione pubblica definiva “masche” per gli atteggiamenti poco femminili, insomma, motivazioni che ben poco avevano a che fare con la malattia mentale.

Il medico, antropologo, filosofo, giurista e criminologo Cesare Lombroso.

Poi arrivò la Grande Guerra con il suo bagaglio di esperienze traumatiche. Tra il 1915 e il 1918 furono ricoverate donne con patologie che sembravano direttamente collegate ai traumi bellici. Sono i polverosi archivi delle strutture manicomiali a parlarci di loro, e ci accorgiamo che si medicalizzavano gli umani sentimenti e le normali manifestazioni di paura che accompagnano un conflitto. Solo che se a non reggere l’urto erano le donne, si parlava di una categoria psichicamente tarata che doveva essere risanata.
Non conosciamo i loro nomi, ci sono rimaste le iniziali sui diari clinici, diventati negli ultimi anni oggetto di studio. A partire dal 2010 la Fondazione Università degli Studi di Teramo ha intrapreso un percorso di valorizzazione e recupero delle memorie custodite nel Manicomio di Sant’Antonio Abate, uno degli ospedali psichiatrici più grandi d’Italia, fondato in città nel 1881 e rimasto aperto fino al 1998.
Ne emerge un microcosmo femminile, si comprende che la guerra non era solo una questione degli uomini, le case erano un altro fronte. Quei vecchi fogli tratteggiano quadri patologici di graduale discesa verso l’apatia e il distacco dalle attività e relazioni. C’era, ad esempio, Maria Vincenza D., una contadina di 23 anni con tre figli piccoli. «Rimasta molto impressionata per la partenza del marito per il fronte», aveva iniziato ad emettere «un continuo lamento», restava stordita e immobile, tanto da dover essere sollevata e condotta a mangiare.
La medesima malinconia apparteneva ad Anna F. L’astenia generale progressiva l’aveva ridotta ad una creatura «pallida, deperita, poco orientata», incapace di mangiare da sola, ai medici era riuscita soltanto a dire che aveva il marito prigioniero.
Privazioni e inquietudini portavano anche attacchi isterici e allucinazioni, come quelle che perseguitavano Ida S., ricoverata al Sant’Antonio Abate nel 1917. Gridava e vedeva persone che la minacciavano; ai medici raccontò di essersi «ammalata in seguito alla impressione provata davanti ai soldati feriti».
L’estrazione sociale delle ricoverate era molto umile, provenivano da contesti rurali dove la sopravvivenza era un’abitudine, la guerra, dunque, ampliò un disagio femminile già presente.
Il trauma mentale della donna durante il conflitto venne affrontato dal punto di vista scientifico dalla psichiatra Maria Del Rio, in servizio nell’Ospedale Psichiatrico di Reggio Emilia. Ammetteva che il dolore e la paura potevano provocare alterazioni di varia intensità, ma alla fine del suo rapporto si unì all’interpretazione della psichiatria di inizio Novecento, secondo la quale «non bastano da sole le emozioni a produrre malattie mentali; insieme ad esse deve concorrere un fattore endogeno congenito od acquisito, che rappresenta il terreno propizio per lo sviluppo delle psicosi». Tradotto: la guerra da sola non era in grado di aumentare le patologie mentali, c’era una sorta di predisposizione nella natura femminile che avrebbe potuto avere ripercussioni negative sulle «generazioni concepite negli anni successivi».

Ida Peruzzi, moglie dello scrittore Emilio Salgàri, non uscirà più dal manicomio in cui fu ricoverata nel 1911.

Dopo la disfatta di Caporetto, nel novembre 1917 a Teramo arrivò un esercito di sfollati, una parte dei circa 13.300 profughi che trovarono rifugio in Abruzzo quando dovettero abbandonare i paesi d’origine. Nei documenti ufficiali si parla al maschile, ma sarebbe più corretto usare la declinazione femminile, visto che la maggioranza di quelle persone erano donne. Alcune furono ricoverate al Sant’Antonio Abate e alla disperazione per ciò che avevano dovuto abbandonare, si aggiunse il senso di degradazione per la diffidenza che manifestavano le popolazioni locali.
Una di queste donne ricordava «i sospetti, le assurde accuse, le vessazioni ed umiliazioni contro le donne con proposte umilianti da parte del delegato di Pubblica Sicurezza».

Arrivati i tempi di pace, l’ombra lunga delle ostilità non permise il riposo della mente. L’esperienza vissuta diventò un’ossessione, bisognava ricostruire, ma non si faceva che pensare al passato. Gli uomini tornati dalla guerra trovarono donne cambiate, perseguitate dai ricordi, non più capaci di accudire la famiglia. Ancora una volta la soluzione fu l’internamento in manicomio, il modo più sbrigativo per liberarsi del problema.
M.S. aveva 44 anni e faceva la contadina. Il 17 agosto 1919 fu ricoverata nell’Ospedale Psichiatrico di Pergine Valsugana, vicino a Trento, il secondo manicomio del Tirolo insieme a quello di Hall in Tirol. Verso la fine di maggio cominciò a mostrarsi inquieta, aveva vuoti di memoria, non lavorava, dormiva poco e girava senza meta; in un precedente ricovero, dove era stata curata per anemia, «sentiva il diavolo in carne e ossa, tentava di gettarsi dalla finestra, stracciava tutto». Sappiamo che entrò nel manicomio in stato depressivo e denutrita. La cartella clinica segna le tappe di un internamento durato due anni; sulle prime ogni cambiamento veniva registrato con scrupolo, mentre nelle ultime pagine le parole che si susseguono sono «idem», «sempre nelle stesse condizioni», «come sempre», «stesso stato», un segno di situazione stazionaria o forse di arresa.
Lucia P. aveva perso il fratello in guerra. Da allora viveva in uno stato di profondo turbamento che convinse i genitori a farla ricoverare nel 1922 al Sant’Antonio Abate. Veniva descritta immobile, chiusa nel silenzio, incapace di svolgere qualsiasi attività.
Elisabetta B. era convinta che qualcuno volesse «gittare delle bombe sulla sua casa, per cui per sottrarsi al bombardamento avrebbe dovuto uccidersi od uccidere altri». Ripeteva: «Per me è finita la vita, i miei sono tutti morti, mi voglio uccidere anch’io».
Il pesante fardello del primo dopoguerra gravava anche sulle spalle di Concetta R., ricoverata per la prima volta a Teramo nel 1921. Tre anni prima era sopravvissuta ad una forma grave di influenza spagnola che, insieme alla perdita del fratello sui campi di battaglia, l’aveva trasformata da «buona, lavoratrice, affettuosa, morale, religiosa» in una donna «svogliata, violenta contro i propri genitori, delirante di persecuzione, allucinata, sconnessa nei discorsi». Per sette anni venne sballottata tra l’ospedale psichiatrico e la famiglia; l’enterite se la portò via nel 1942, in manicomio.

Dal fascismo alla “Legge Basaglia”, passando per la seconda guerra mondiale
«Loquace. Instabile. Incoerente. Stravagante. Capricciosa. Eccitata. Insolente. Indocile. Bugiarda. Impertinente. Cattiva. Prepotente. Ninfomane. Impulsiva. Nervosa. Erotica. Allucinata. Irrequieta. Ciarliera. Irriverente. Petulante. Maldicente. Irosa. Piacente. Smorfiosa. Irritabile. Clamorosa. Minacciosa. Rossa in viso. Esibizionista. Menzognera. Dedita all’ozio. Civettuola»: durante il ventennio fascista una donna poteva essere internata con una o più di queste trentatré sintomatologie, riconosciute e suddivise in tre colonne sulla cartella clinica. In molti casi queste parole non corrispondevano ad una diagnosi medica, spesso, infatti, le porte del manicomio si aprivano per le donne che semplicemente non si conformavano alle prerogative richieste dal regime, erano indipendenti, non si piegavano al volere maschile e alle regole di una società che le voleva soltanto docili spose e madri esemplari. Donne ribelli, quindi inadeguate, che avrebbero potuto intaccare la moralità e il patrimonio biologico del Paese, la rigida disciplina manicomiale le avrebbe ricondotte sui binari richiesti dalla comunità.
La Sanità e l’Istituzione Psichiatrica fascista diventarono le braccia di una politica di sorveglianza che annullava i diritti individuali in nome dell’”ordine pubblico”. Tra il 1927 e il 1941 i pazienti negli ospedali psichiatrici passarono da circa 60.000 a quasi 95.000, molte erano donne. L’Istituto Centrale per la Bonifica Umana e l’Ortogenesi, attivo a partire dal 1938, aveva il compito di separare le persone “difformi” dal corpo sano della nazione. Non prese mai piede, né a livello politico né scientifico, una vera e propria legislazione eugenetica che altrove in Europa portò ad una selezione sociale per mezzo della sterilizzazione. Anzi, prima che l’alleato tedesco imponesse un clima di censura, la comunità medica e intellettuale italiana condannò apertamente certi radicalismi, ritenendoli inutili e illeciti dal punto di vista etico, un atteggiamento che continuò anche dopo la pubblicazione di documenti razzistici e filonazisti.
Italia assolta, dunque? No, niente affatto. Sulla carta, infatti, ci si limitò a legittimare che la “razza italica” avesse un’ascendenza ariana, senza rinunciare alle peculiarità mediterranee. Questa posizione apparentemente “morbida” non impedì che le stanze dei manicomi si affollassero anche di creature “imperfette” che mostravano fin dalla tenera età anomalie fisiche e comportamentali e di bambine vittime di una cattiva educazione che da adulte rischiavano per questo di diventare “delinquenti”. Era la “politica della femminilità” che allontanava dalla vita civile chi era marchiata dallo stigma della “diversità”.

Ida Dalser, che ebbe un figlio da Benito Mussolini e che dopo la Marcia su Roma, fu internata nel Manicomio di Pergine Valsugana (Trento) e poi in quello di San Clemente, a Venezia, dove morì nel 1937, a 57 anni. Fu la stessa sorte del figlio Benito Albino, ritenuto pazzo perché si dichiarava figlio del Duce, che morì in manicomio a 27 anni.

A partire dal 1925, Benito Mussolini affermò che il compito di una brava italiana era riprodursi per incrementare il capitale umano della patria. Nelle fasce di popolazione più povere una donna poteva avere fino a quattordici figli e doveva assolvere al ruolo di madre, moglie, casalinga e lavoratrice nei campi, senza mai mostrare tentennamenti né stanchezza. Pur non vedendosi riconosciuta dignità, era l’elemento portante della famiglia, ogni segno di esaurimento nervoso la etichettava come “contro natura”, nulla contavano le difficoltà dovute alla malnutrizione e l’assoluta indigenza.
“Contro natura” erano le donne che soffrivano di depressione post partum (una condizione ancora oggi poco riconosciuta, figuriamoci allora…) e quelle che manifestavano la volontà di non volere più figli o di non volerne affatto. Non di rado erano le famiglie stesse che chiedevano il ricovero di una congiunta, perché intollerante alla disciplina, poco incline alle faccende domestiche, desiderosa di spendere qualche soldo in futilità; ne facevano le spese anche ragazzine che si attardavano con i giovanotti, ciò che era considerato un sintomo di esuberanza sessuale, che rispondevano per le rime quando venivano rimproverate, che volevano divertirsi. In questi casi il manicomio diventava un castigo legittimato dallo Stato. Dopo la segnalazione, il medico condotto e il sindaco ordinavano il ricovero coatto.
Tra le rinchiuse per punizione ci fu anche Ida Dalser, la prima compagna del Duce che gli diede un figlio, Benito Albino. Era una donna emancipata, aveva studiato Medicina Estetica a Parigi ed era proprietaria di un centro di bellezza a Milano. Le continue accese proteste per vedere riconosciuto il proprio ruolo e l’identità del figlio le costarono un foglio di via dalla città per «grave pericolo di turbamento dell’ordine pubblico, pel contegno provocante verso la famiglia del professor Mussolini, per i propositi di vendetta da lei manifestati, per le relazioni da lei coltivate, per i raggiri ai quali ricorreva per vivere». In seguito alla Marcia su Roma, Mussolini ne ordinò l’internamento nel Manicomio di Pergine Valsugana, per trasferirla poi in quello di San Clemente, a Venezia, dove morì nel 1937, a 57 anni. Stessa sorte per Benito Albino, ritenuto pazzo perché si dichiarava figlio del Duce, rinchiuso nell’Ospedale Psichiatrico di Mombello di Limbiate (Milano) e morto per consuzione all’età di 27 anni, nel 1942.
Voci mai del tutto confermate parlano di due internamenti ad opera del Governo, per nascondere episodi che avrebbero messo in cattiva luce Mussolini (per avere uno spaccato del clima che si respirava all’epoca è interessante la visione del film Vincere di Marco Bellocchio, uscito nel 2009 e dedicato proprio alla storia di Ida Dalser).

Ma torniamo alle altre donne che di Dalser hanno condiviso la sorte. Negli istituti c’erano pure alcune prostitute, che non avevano un quadro clinico definito, il regime aveva altri modi per regolamentare la prostituzione, venivano ricoverate in quanto affette da sifilide e dovevano essere in qualche modo sottratte all’esercizio del loro “mestiere”.
C’erano ragazze e donne che avevano subìto violenza carnale e abusi domestici, se non riuscivano a superare il trauma, diventando da vittime a colpevoli. Poche donne erano alfabetizzate, sono loro ad averci lasciato le testimonianze scritte da quel mondo altro che era l’istituto psichiatrico. Scrivevano ai familiari, raccontavano della privazione della libertà cui erano sottoposte, dell’essere diventate «carne da rinchiudere», della paura di diventare davvero pazze. Chiedevano di tornare a casa, domandavano ai parenti di intercedere per loro, quegli stessi parenti che le avevano denunciate. Nessuna di quelle lettere veniva spedita, finivano tutte nelle cartelle cliniche come prova della malattia. Si ripropose inoltre il copione già visto durante il primo conflitto mondiale e il primo dopoguerra. Ancora una volta, infatti, gli eventi bellici si insinuarono nella quotidianità, se possibile con maggior forza, perché nessuno pensava che avrebbe potuto accadere di nuovo.
Il fronte della prima guerra si era materializzato con durezza ma indirettamente, nelle ferite dei reduci e nei racconti dei soldati superstiti, mentre il secondo portò nelle case fame, bombardamenti, occupazione, rastrellamenti e vicissitudini di ogni tipo. La disperazione e l’impotenza di fronte alla distruzione portarono molte donne a scivolare in un’apnea dell’esistenza e della coscienza che si manifestava con linguaggi diversi: stati di profonda agitazione, idee persecutorie, sensi di colpa per la morte dei familiari, angoscia e mutismo. Gli attacchi aerei avevano spostato la prima linea nella vita di ogni giorno, cosicché nelle cartelle cliniche ritrovate al Sant’Antonio Abate leggiamo tante di queste storie, come quella di Maria Grazia B, che il 7 ottobre 1943, «dopo un bombardamento aereo cominciò a dar segni di alienazione mentale, minacciando quanti le si avvicinavano, gridando e agitandosi». Arrivò nell’ospedale psichiatrico «in preda ad un intenso stato di eccitamento psico-motorio, disorientata nel tempo e nello spazio», capace unicamente di mormorare «parole e frasi sconnesse». «Trattenuta a letto con mezzi di contenzione», morì dopo un mese per «insufficienza cardiaca-collasso».
Il ricovero di Angela G. era stato richiesto dopo il «bombardamento di Napoli da cui sfollò». Non si alzava dal letto, si lamentava e rispondeva alle domande «sconclusionatamente, piagnucolando senza ragione». Non ricordava di avere un marito e una figlia, diceva di essere sola al mondo.

Franco Basaglia che nel 1978 diede il nome alla Legge che portò alla chiusura dei manicomi.

Il filo spinato della guerra continuò ad aggrovigliare la mente delle donne per molti anni dopo la fine delle ostilità. Nuovi fantasmi fecero capolino, i tentativi falliti di tornare alla normalità, i valori sconvolti furono i motivi del ricovero di Elisabetta G. Dopo sei mesi di occupazione alleata, continui bombardamenti, la prigionia lunga cinque anni del marito e il duro lavoro per mantenere la famiglia da sola, viveva nel terrore di rappresaglie, perché il marito, al ritorno, povero e senza occupazione, si era iscritto al Partito Comunista. Ricoverata per «eccitamento psicomotorio con confusione, insonnia, allucinazioni, idee sconnesse persecutorie e di veneficio, tendenza a farsi del male», morì per collasso appena dieci giorni dopo l’arrivo in manicomio.
A partire dagli Anni Venti, sulla prima pagina di ogni cartella aveva cominciato a comparire la fotografia della paziente, una pratica derivata dalle teorie dello psichiatra e antropologo Cesare Lombroso secondo cui la “devianza” morale e mentale si poteva evincere dalla fisionomia, negli occhi, nella forma del cranio, nell’asimmetria del volto, in uno zigomo diverso dall’altro. C’era per altro anche una ragione concreta: se una paziente fuggiva, infatti, sarebbe stato più facile ritrovarla attraverso la foto segnaletica.
Il ricovero era considerato già di per sé una cura, ma non mancavano sistemi sperimentali per “correggere” le “anomale” delle condotte femminili. Diverse “terapie” di choc provocavano febbri violente, convulsioni e coma, si credeva che lo scontro fra diversi stati patologici avrebbe portato al risanamento. Lo scompenso organico che si pensava alla base delle patologie psichiatriche veniva “risolto” anche con l’alternanza di bagni caldi e freddi, la cosiddetta “terapia del riposo”, ovvero legare le donne a letto per lunghi periodi, le iniezioni di insulina che nei casi di schizofrenia inducevano uno stato comatoso, e l’inoculazione dell’agente patogeno della malaria, in modo da provocare fino a dieci attacchi di febbre altissima nel giro di breve tempo. Nel 1938 si aggiunse l’elettroshock, che secondo i sanitari avrebbe calmato le pazienti.
Nessuna moriva per malattia mentale, erano il deperimento fisico, l’anoressia, il collasso, le bronchiti, l’emorragia cerebrale e la paralisi cardiaca le cause più frequenti dei decessi. Vengono i brividi se pensiamo che fino a cinquant’anni fa questi pubblici lager per “malate di mente” erano ancora aperti e non molto dissimili da quanto raccontato.
Il secondo dopoguerra, infatti, non portò sostanziali cambiamenti. Sempre al Sant’Antonio Abate di Teramo una giovane, una tra le tante, era stata ricoverata per i litigi con la mamma e lo zio, il medico di famiglia l’aveva dichiarata «affetta da isterismo di alto grado». Questa “diagnosi” accompagnava l’internamento di molte donne, oppure si scrivevano frasi tipo «comportamento quantomai strano e dovuto senza dubbio a squilibrio mentale». In alcuni casi era sufficiente rendersi protagoniste di litigi con i vicini di casa, tanto bastava per il ricovero coatto. A volte, dopo una permanenza in osservazione per un mese, gli psichiatri dimettevano qualche paziente, dichiarandola «rassegnata per la sua sorte tragica», ma a patto che ci fosse una famiglia disposta a riprenderla. Altre finivano i loro giorni in manicomio, alcune vi hanno vissuto oltre mezzo secolo, senza vedere mai più il mondo fuori.
Ancora sul finire degli Anni Sessanta alcune ragazze furono rinchiuse per essersi allontanate da casa e unite ai cosiddetti “capelloni”, per essere andate «nelle bettole a fare l’amore».
Gli Anni Sessanta furono anche quelli di un’iniziale presa di coscienza. Uscirono libri e articoli (si ricordano in particolare i pezzi di Angelo Del Boca, successivamente raccolti nel volume Manicomi come lager), lo stesso ministro della Sanità Luigi Mariotti si fece promotore di una campagna di denuncia, definendo gli ospedali psichiatrici delle autentiche «bolge dantesche».
Non di rado i parenti cancellavano per la vergogna le loro madri, figlie, sorelle. Questa rimozione non si interruppe con la caduta del fascismo né servirono nei decenni successivi i movimenti per la rivendicazione dei diritti umani, l’oblio ha attraversato intere generazioni.
In seguito poi alla Legge Basaglia, nel 1978, sono state tante le famiglie italiane a scoprire di avere una parente che stava per essere dimessa da un istituto psichiatrico.

 

* Il presente testo è già stato pubblicato su Superando.it, il portale promosso dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), e viene qui ripreso per gentile concessione.

 

Ultimo aggiornamento il 18 Febbraio 2022 da Simona