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La coercizione riproduttiva

L’insieme dei comportamenti che interferiscono con l’autonomia decisionale di una donna a proposito della sua salute riproduttiva costituisce una forma specifica di violenza denominata coercizione riproduttiva. Prendendo spunto da un recente articolo su questo tema pubblicato dalla scrittrice femminista Jennifer Guerra, proponiamo una riflessione sulle particolari declinazioni che tale violenza può assumere in relazione al cosiddetto “aborto terapeutico.

 

Opera pittorica dell’artista portoghese Lena Rivo intitolata “In a shadow” (In un’ombra). Vi è raffigurata una figura femminile seduta e con le gambe piegate all’altezza del petto. Le pennellate spesse non delineano i dettagli, mentre la figura risalta in un gioco di luce.

Nel 2016 il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità ha rivolto al nostro Paese importanti moniti per le discriminazioni subite dalle donne e dalle ragazze con disabilità nell’accesso ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva e alle informazioni sui servizi stessi (punti 61 e 62 delle Osservazioni Conclusive al primo rapporto dell’Italia sull’applicazione della Convenzione ONU sui diritti delle Persone con Disabilità). Il Comitato ONU ha inoltre espresso preoccupazione «per la mancanza di dati sui trattamenti somministrati senza il consenso libero e informato della persona, compresa la sterilizzazione», ed ha raccomandato «l’abrogazione di tutte le leggi che permettono di somministrare trattamenti medici, compresa la sterilizzazione, autorizzati da terzi (tutori, genitori) senza il consenso  libero e informato della persona, e di fornire in merito una formazione di alta qualità al personale sanitario» (punti 63 e 64 delle citate Osservazioni Conclusive). Anche se in quest’ultimo passaggio il riferimento al genere non è esplicito, non è difficile trovare riscontri che pratiche come quella della sterilizzazione forzata siano poste in essere prevalentemente nei confronti delle donne e delle ragazze con disabilità (a tal proposito si segnala il seguente approfondimento).

Le osservazioni del Comitato ONU hanno indotto a riflettere sulle pratiche di violenza che si concretizzano in trattamenti sanitari attuati senza il consenso informato della ragazza o della donna con disabilità interessata, in specifico la maggiore attenzione è stata riservata all’aborto e alla sterilizzazione forzati. Molto meno sondate sono invece alcune pratiche di coercizione riproduttiva non solo nei confronti delle donne con disabilità, ma delle donne in generale. Proprio al tema della coercizione riproduttiva è dedicato un interessantissimo articolo di Jennifer Guerra, nota scrittrice femminista, pubblicato proprio in questi giorni sul sito del periodico «The Vision». Spiega Guerra che la “coercizione riproduttiva” è una forma di violenza che può essere «definita come quell’insieme di “comportamenti che interferiscono con l’autonomia decisionale di una donna a proposito della sua salute riproduttiva”. È un tipo di violenza invisibile, che agisce più a livello psicologico che fisico e che spesso si fa fatica a riconoscere come tale: spesso l’ingerenza sulla gravidanza o la contraccezione viene scambiata come una forma di eccessiva preoccupazione più che come una manipolazione che scavalca il consenso. Si tratta infatti di un’influenza e si può esercitare in molti modi, ad esempio obbligando una donna a portare a termine o a interrompere una gravidanza, vietandole o imponendole di utilizzare contraccettivi, ma anche esponendola consapevolmente al rischio di contrarre malattie sessualmente trasmesse. La coercizione può avvenire attraverso minacce di violenza fisica, ma anche attraverso ricatti, abusi emotivi o controlli ossessivi». Guerra osserva che si tratta di un tema abbastanza nuovo, se si considera che il primo studio sull’argomento che ha stabilito una relazione causale tra controllo della gravidanza e violenza domestica risale al 2010. Facendo riferimento ad un’analisi di tutti gli studi disponibili sull’argomento realizzata da Karen Trister Grace e Jocelyn C. Anderson, Guerra individua le tre forme più diffuse di coercizione riproduttiva: fare pressione o minacciare la partner affinché rimanga incinta, esercitare un controllo sull’uso della contraccezione (che consiste nel rifiutare di indossare il preservativo durante i rapporti, nel praticare lo stealthing (rimuoverlo senza consenso) o nell’impedire alla partner di utilizzare altre misure contraccettive), e l’obbligo o il divieto di aborto attraverso minacce o imposizioni.

Queste forme di violenza non avvengono solo all’interno della coppia o del nucleo familiare (ad esempio ad opera di padri o fratelli di maggiori), possano avvenire anche per mano di Stati e governi, assumendo così una valenza sistemica. A tal proposito Guerra cita un articolo del 2012 del Guttmacher Institute, il più importante centro di studi al mondo sulla salute riproduttiva, in cui si fa riferimento ai casi di sterilizzazione forzata di donne afroamericane in alcuni Paesi degli Stati Uniti avvenuti fino agli anni Ottanta, o delle donne indigene in Perù in una campagna avvenuta tra il 1996 e il 2000. Un esempio di segno opposto è invece rappresentato dalle campagne pro-nataliste finalizzate ad aumentare il numero di nuovi nati sottraendo alle donne il controllo sul proprio corpo, come quella posta in essere in Romania dal 1965 al 1989, quando il governo di Ceaușescu «vietò l’aborto e ogni forma di contraccezione. Il divieto portò presto a una sovrappopolazione che causò gravi problemi sociali, oltre a tassi altissimi di mortalità durante il parto e al ricorso all’aborto illegale, con tutti i rischi che comporta alla salute delle donne». In merito alla modalità sistemica di esercizio della violenza, l’autrice rileva che «secondo il Guttmacher Institute, anche tutte le pratiche che impediscono l’aborto laddove esso è legale sono una forma di coercizione riproduttiva, dal momento che mettono le donne nella condizione di non avere scelta tra il portare avanti e l’interrompere una gravidanza».

Nell’articolo pubblicato da «The Vision» non vi sono riferimenti alle donne con disabilità, e neppure al cosiddetto “aborto terapeutico”, quello che può essere praticato anche dopo i primi novanta giorni di gestazione quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, oppure «quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna», come previsto dall’articolo 6 della Legge 194/1978. Una disposizione nella quale l’accento, non è superfluo sottolinearlo, è posto sulla salute fisica o psichica della donna e non sulle condizioni del nascituro.

La sottolineatura è necessaria perché il tema della discriminazione nei confronti delle persone con disabilità in relazione all’aborto terapeutico è spesso utilizzato da chi sostiene posizioni antiabortiste, o da alcune persone con disabilità. Può inoltre capitare che una stessa donna incinta, in presenza di una patologia fetale, divenga bersaglio di una violenza incrociata (anche ad opera del personale sanitario) allo scopo di orientarne la scelta sia in senso abortista che in senso contrario. Il fine di tutte queste pratiche è quello di colpevolizzare la donna per interferire con la sua autonomia decisionale riguardo alla sua gravidanza, e si configura a tutti gli effetti come una coercizione riproduttiva. Chi pone in essere tali pratiche solitamente non presta attenzione al sentire della donna, a come sta e a quale sia il suo pensiero riguardo alla situazione che sta vivendo, e può arrivare a fornirle informazioni viziate dai propri pregiudizi. Questo accade nonostante sia incontestabile che, non avendo né gli embrioni né i feti una propria individualità, la pretesa di disporre di questi (sia in un senso che nell’altro) si concretizza nel disporre del corpo della donna. Per farsi un’idea del tipo di pressione a cui sono sottoposte le donne basta guardare quanto accaduto proprio nei giorni scorsi in relazione al referendum volto a depenalizzare l’aborto nel piccolo Stato di San Marino. Nello Stato del Titano, in vista della consultazione prevista per il prossimo 26 settembre, il comitato per il no “Uno di noi” ha affisso in tutto il territorio sammarinese un manifesto nel quale è raffigurato un giovane con sindrome di Down definito come «una anomalia». Una scelta dalla quale ha preso le distanze lo stesso Partito Democratico Cristiano Sammarinese che sostiene il no al referendum.

Chi sposa le posizioni antiabortiste mette sullo stesso piano embrioni/feti e persone. Chi invece sostiene la libertà di scelta delle donne (e della coppia) in tema di gravidanza riconosce lo statuto ontologico di persona solo alla donna, non agli embrioni e ai feti. Quest’ultima posizione non impedisce a chi pensa che anche embrioni e feti siano persone di comportarsi di conseguenza evitando di far ricorso all’aborto, ma contemporaneamente salvaguarda l’autonomia decisionale della donna nelle scelte che riguardano il proprio corpo. Una delle argomentazioni espresse dalle persone con disabilità che si sentono “minacciate” nel loro diritto ad esistere dall’aborto terapeutico consiste nel ritenere che chi lo pratica sia spinto un pregiudizio abilista riguardo alle persone con disabilità. In merito a tale rilievo possiamo argomentare che nessuno e nessuna di noi sarebbe qui se le nostre madri non avessero deciso di farci nascere, e le nostre paure non sono un buon motivo per espropriare le donne del loro diritto a disporre di sé e della libertà di scegliere se divenire madri o meno. Possiamo poi osservare che non è vero che l’unica motivazione ipotizzabile per fare ricorso all’aborto terapeutico sia una “visione tragica” della vita delle persone con disabilità, prova ne sia che talvolta questa scelta è operata anche persone disabili con patologie geneticamente trasmissibili (si veda, a tal proposito, un testo che tratta il tema in relazione alle patologie neuromuscolari). Le persone con disabilità di cui si tratta non sono persone che hanno scarsa autostima, o che pensano che la loro stessa vita sia indegna di essere vissuta, ma, più semplicemente, sono persone che, potendo scegliere, non si vogliono assumere la responsabilità di trasmettere la propria patologia ad altri esseri umani. Fanno bene? Fanno male? Per entrambe le posizioni si potrebbero portare argomentazioni plausibili, ma chi rispetta la libertà di scelta delle donne la sostiene senza esprimere giudizi qualunque sia la scelta, ritenendo che l’unico atteggiamento realmente rispettoso sia quello di lasciare le donne (e le coppie) libere di comportarsi in accordo con il proprio sentire. Se accettiamo il fatto che embrioni e feti non si pongono sullo stesso piano delle persone, dovremo convenire sul fatto che le motivazioni soggettive per le quali una donna decide di interrompere o portare avanti una gravidanza non sono rilevanti. Infatti, fermo restando il confronto col partner della coppia (qualora sussistano le condizioni per tale confronto), quando una donna compie una scelta in materia di maternità sta semplicemente disponendo del proprio corpo e della propria vita, e nel farlo non è vincolata a rispondere alle aspettative e agli interessi altrui giacché nessuno e nessuna può accampare diritti sul suo corpo e sulla sua vita.

Simona Lancioni
Responsabile del centro informare un’h di Peccioli (PI)

 

Nota: la formattazione delle citazioni testuali non corrisponde a quella dei testi originali.

 

Per approfondire:

Jennifer Guerra, Imporre una gravidanza o un aborto a una donna è violenza e si chiama coercizione riproduttiva, «The Vision», 15 settembre 2021.

Simona Lancioni, San Marino, una persona con sindrome di Down sul manifesto per il no all’aborto, «Informare un’h», 13 settembre 2021.

Nadia Muscialini (intervista a), Supportare le donne incinte nella scelta in presenza di una patologia fetale, a cura di Simona Lancioni, «Informare un’h», 17 gennaio 2019.

Quella violenza incrociata che nega la libertà di scelta delle donne in tema di maternità, a cura di Simona Lancioni, «Informare un’h», 4 gennaio 2019.

Forum Europeo sulla Disabilità e Fundación CERMI Mujeres, Ending forced sterilization of women and girls with disabilities, adottato dall’Assemblea generale del Forum Europeo sulla Disabilità, Madrid, maggio 2017 (in lingua inglese).

Simona Lancioni, I falsi miti sulla sterilizzazione forzata delle donne con disabilità, «Informare un’h», 24 marzo 2018.

Simona Lancioni, Alcuni delicati temi etici, «Superando.it», 18 luglio 2016.

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità: diritti sessuali e riproduttivi”.

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.

 

Ultimo aggiornamento il 23 Gennaio 2024 da Simona