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La mistica della maternità e le associazioni di persone con disabilità

Se non tutti siamo genitori, tutti siamo figli e figlie e l’immaginario sul materno condiziona le nostre vite e le aspettative rispetto al ruolo genitoriale. Possiamo ipotizzare che se anche le associazioni di persone con disabilità iniziassero ad interrogarsi sulla “mistica della maternità” e sulle ambivalenze del materno, probabilmente alcune di esse sarebbero meno propense ad esprimere quei pesanti giudizi sulle scelte delle donne in tema di maternità che talvolta ci tocca leggere. E sarebbe già una gran cosa.   

 

Egon Schiele, La madre cieca, 2014, Leopold Museum, Vienna. Dipinto che raffigura una donna che allatta un bambino tenendolo con un braccio e raccolto tra le gambe larghe.

In Italia le donne fanno sempre meno figli e sempre più in ritardo. Il numero medio di figli per donna è pari a 1,24 (dato Istat 2020), il livello più basso dal 2003, mentre la media europea nel 2019 era di 1,53. L’età media al parto ha raggiunto i 32,2 anni. Tra i fattori che incidono sulla denatalità vi è il protrarsi dell’instabilità lavorativa delle donne, il loro basso livello occupazionale, il divario salariale che penalizza le donne rispetto agli uomini, un welfare che si basa sul supporto dei nonni e delle nonne resi meno disponibili dall’innalzamento dell’età pensionabile, il fatto che spesso le donne si ritrovino a dover scegliere tra lavoro e figli (si veda: Monica D’Ascenzo, Natalità, facciamo sempre meno figli ma bisogna chiedersi il perché, «Alley Oop» blog de «Il Sole 24 Ore», 4 maggio 2021). Si fanno anche meno figli/e con disabilità, verosimilmente perché alle motivazioni segnalate sopra si è aggiunge anche quella che i supporti offerti alle famiglie che hanno al proprio interno una persona con una disabilità significativa sono carenti o inesistenti, ed anche perché l’invecchiamento della popolazione fa sì che sempre più spesso le famiglie debbano già prestare assistenza alle persone anziane non autosufficienti, impegno che ricade in larghissima parte sulle donne.

Queste motivazioni della denatalità sono abbastanza oggettive, eppure all’interno di alcune associazioni di persone con disabilità permane l’inclinazione ad interpretare il dato in termini abilisti, ossia di discriminazione nei confronti delle persone con disabilità a causa della disabilità. Che i pregiudizi e le discriminazioni nei confronti delle persone con disabilità siano ancora largamente diffusi, e che vadano combattuti in tutti i modi leciti e non violenti, non è oggetto di discussione. Invece che il contrasto all’abilismo possa essere inteso come autorizzazione a esprimere pesanti giudizi sulle scelte operate dalle donne in materia di maternità non dovrebbe essere un’opzione contemplata da chi assume come paradigma di riferimento il rispetto dei diritti umani, giacché questo non tutela solo le persone con disabilità, ma anche le donne (disabili e non). Eppure questo accade più o meno regolarmente quado si parla di aborto terapeutico, quello ammesso in presenza di «rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna», come previsto, qui in Italia, dall’articolo 6 della Legge 194/1978 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza). Anche quando queste associazioni non si dichiarano apertamente antiabortiste, ma anzi ci tengono a precisare che loro la libertà di scelta delle donne la rispettano, poi continuano a pensare e a trattare l’aborto terapeutico come una discriminazione nei confronti delle persone con disabilità, e a ritenere che esso sottenda sempre una riflessione sull’indegnità della loro vita. Questa è, ad esempio, la posizione dell’ANFFAS – Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale –, che recentemente ha diramato questo comunicato: Il Caso Crowter e le vite degne di essere vissute («Superando.it», 5 ottobre 2021). Vero è che in ambito sanitario spesso persiste ancora un’interpretazione della disabilità che fa riferimento al modello medico, e non a quello bio-psico-sociale promosso dalla Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (ICF) nel 2001, e ribadito nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con Disabilità del 2006, la qual cosa porta a dare alle donne (e alle coppie) in attesa informazioni sbagliate sulla disabilità. Questa è una distorsione che va sicuramente corretta con una formazione mirata e adeguata rivolta a tutto il personale sanitario, non solo a quello dell’area sessuale e riproduttiva. E tuttavia vi è una fallacia di fondo rispetto all’interpretazione dell’aborto come pratica discriminatoria. Chi considera l’aborto una pratica eticamente accettabile non attribuisce ad embrioni e feti alcuna soggettività, non avendo questi un’individualità non pensa siano persone, e non li tratta come tali. Questa interpretazione trova un riscontro nel fatto che embrioni e feti non sono trattati come persone né dalla Legge 194/1978, né dalla citata Convenzione ONU, i cui 50 articoli si riferiscono solo ed esclusivamente alle persone con disabilità, e neppure dalla Legge 67/2006 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni).

Ma allora perché alcuni e alcune continuano a vederci una discriminazione? Suppongo sia perché queste persone pensano che embrioni e feti, sebbene non abbiano un’individualità, siano già persone al momento del concepimento, oppure che lo diventino in momenti successivi, ad esempio dopo i primi tre mesi nei quali è consentito praticare l’aborto non terapeutico. È questa una posizione plausibile e rispettabile? Lo è certamente, è molto frequente trovare donne e coppie che instaurano un rapporto col nascituro ben prima della nascita e lo trattano come una persona. E se questo è il loro sentire, fanno benissimo a fare così. Quello che invece non dovrebbero fare è pensare che la loro posizione sia quella di tutte le donne e di tutte le coppie. Infatti non lo è, e, oltretutto, fare pressioni o pensare di sostituirsi alla donna nelle sue scelte in tema di maternità per evitare il presunto “omicidio” si configura come una forma di violenza genere, la cosiddetta coercizione riproduttiva (se ne legga in Jennifer Guerra, Imporre una gravidanza o un aborto a una donna è violenza e si chiama coercizione riproduttiva, «The Vision», 15 settembre 2021). Interferire con l’autonomia decisionale di una donna a proposito della sua salute riproduttiva è considerato una forma violenza perché tali scelte ricadono direttamente sul suo corpo e sulla sua vita. Un corpo e una vita di cui solo lei può disporre, e che lei non è tenuta a gestire in funzione altrui se questo non corrisponde ai suoi desideri. Credo che associazioni come l’ANFFAS dovrebbero iniziare a chiedersi quali diritti pensano di poter vantare sul corpo e sulla vita delle donne. Se non ne vantano alcuno, perché continuano a colpevolizzarle? E come conciliano questo atteggiamento con le disposizioni contenute nella Convenzione ONU che vincolano gli Stati Parti a predisporre interventi che tengano conto delle specifiche differenze di genere, tra le altre, anche nell’area sessuale e riproduttiva (articolo 25, in materia di salute), una delle aree in cui le donne tutte (non solo quelle con disabilità) sono più discriminate? E che tipo di riflessioni hanno fatto sul sessismo che ancora alberga all’interno delle stesse associazioni di persone con disabilità?

Ma non è solo questo il problema. Il problema, o meglio uno dei problemi, è anche quella che, rielaborando un concetto proposto dalla scrittrice statunitense Betty Friedan (1921-2006), potremmo chiamare “mistica della maternità”.

Friedan maturò il suo pensiero nella metà del secolo scorso. Durante la Seconda Guerra mondiale le donne erano entrate in massa nel lavoro extradomestico per sostituire gli uomini impegnati nel conflitto. Negli anni ’50, finita la Guerra, negli Stati Uniti si pose il problema di ripristinare l’ordine preesistente, dunque di persuadere le donne a lasciare le proprie occupazioni per cederle agli uomini tornati dal fronte, e di sospingerle docilmente nelle proprie abitazioni ad occuparsi preferibilmente o esclusivamente del marito, dei figli e delle faccende domestiche. L’opera di persuasione venne condotta cercando di rendere allettante lo stare in casa. Non è un caso che proprio in quest’epoca fecero la comparsa «accessori sempre più moderni per rendere più gradevoli i lavori domestici (frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, aspirapolvere, battitappeti), vivibili gli ambienti casalinghi (arredamento di qualità delle abitazioni dei quartieri di residenziali con giardino, talvolta la piscina) e facilitare gli spostamenti (automobili per accompagnare i figli a scuola e per fare la spesa al supermercato). Le giovani vengono sollecitate a sposarsi presto, a trovare una sistemazione definitiva nel matrimonio, ad abbandonare gli studi, il lavoro extradomestico, a rinunciare alle ambizioni personali (“donna in carriera” diventa quasi un insulto), e a realizzare l’autentica natura “femminile” mediante la cura di marito, figli, casa (Adriana Cavarero e Franco Restaino, Le filosofie femministe, Bruno Mondadori, ©2002, pagine 27-28, grassetti miei in questa e nelle successive citazioni). Furono tanti i soggetti che contribuirono a questa promessa di felicità da raggiungere sempre e immancabilmente col matrimonio – cinema, televisione, giornali femminili, pubblicità, medici, psicologi, sociologi –, racconta Friedan ne “La mistica della femminilità”, l’opera del 1963 che le è valsa la notorietà. In specifico l’autrice indagò la condizione delle donne della sua generazione intervistando le sue ex compagne di studi, a quindici anni dalla fine di questi, ed altre casalinghe che avevano abbandonato le proprie aspirazioni personali allettate dalla “mistica della femminilità”. Dalla sua indagine emerse l’esistenza di un «problema che non ha nome», un’insoddisfazione alla quale non era ancora stata data una definizione, e che le faceva sentire “incomplete”, prive di “identità”, insoddisfatte di quel lavoro ripetitivo che non le gratificava, depresse, deluse e ingannate. «Non possiamo più ignorare quella voce interiore che parla nelle donne e dice: “Voglio qualcosa di più del marito, dei figli e della casa”», scriverà, dando finalmente una denominazione a quel problema che non ne aveva ancora una (Betty Friedan, La mistica della femminilità, Edizioni di Comunità, 1964, pagina 27).

Anche nelle associazioni di persone con disabilità capita di ritrovare qualcosa di simile riferito alla maternità di figli e figlie con disabilità, quella che, come ho accennato, possiamo chiamare la “mistica della maternità”. Nel momento in cui davanti a “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro” qualche donna manifesta di volersi sottrarre alla maternità, alcuni e alcune pensano che il problema sia che le donne (e le coppie) ritengano di non poter amare un figlio o una figlia con disabilità, e dunque raccontano e mostrano loro bambini/e e adulti con disabilità felici e realizzati, genitori amorevoli che hanno affrontato anche qualche difficoltà ma che traggono comunque bilanci molto positivi della loro esperienza. Storie vere, intendiamoci. Storie belle, senza dubbio. Storie che però non colgono e non risolvono le ambiguità che da sempre caratterizzano il materno (e anche il paterno), a partire dal fatto di ritrovarsi quasi sempre a doversi mettere al secondo, terzo o quarto posto, oppure a dover buttare studio e lavoro retribuito nel cestino se le esigenze familiari lo richiedono (giusto per citare alcuni degli aspetti problematici più eclatanti che riguardano in modo sproporzionato le madri). C’è chi riesce a conviverci e a trovare un equilibrio, e chi ne esce devastata o non ne esce proprio. Questo non perché non imparino ad amare i propri figli e figlie, ma perché la propria idea di sé non corrisponde alla realtà che vivono. Esiste una letteratura sterminata su questi temi. Di mamma ce n’è più d’una di Loredana Lipperini (Mondadori, ©2013) e Ambiguo materno a cura di Piera Nobili e Maria Paola Patuelli (Fernandel, ©2017), ad esempio, sono due opere che io ho amato molto. Il loro merito è quello di mostrare come la libertà di scelta di ogni singola donna in materia di maternità, sempre soggetta a pressioni multidirezionali, non si possa incasellare in schemi dicotomici.

Se non tutti siamo genitori, tutti siamo figli e figlie e l’immaginario sul materno condiziona le nostre vite e le aspettative rispetto al ruolo genitoriale. Possiamo ipotizzare che se anche le associazioni di persone con disabilità iniziassero ad interrogarsi sulla “mistica della maternità” e sulle ambivalenze del materno, probabilmente alcune di esse sarebbero meno propense ad esprimere quei pesanti giudizi sulle scelte delle donne in tema di maternità che talvolta ci tocca leggere. E sarebbe già una gran cosa.

Simona Lancioni
Responsabile del centro Informare un’h di Peccioli (Pisa).

 

Vedi anche:

Simona Lancioni, Senza giudicare, è questo il modo più adeguato per parlare di aborto terapeutico, «Informare un’h», 7 ottobre 2021.

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità: diritti sessuali e riproduttivi”.

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.

 

Data di creazione: 15 Ottobre 2021

Ultimo aggiornamento il 17 Ottobre 2021 da Simona