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Perché considero Franco Bomprezzi un Maestro e ne avverto la mancanza

di Simona Lancioni

«Mi sono chiesta – scrive Simona Lancioni, parlando di Franco Bomprezzi, che fu per anni direttore responsabile del nostro giornale – il motivo per cui io, ma non solo io, considero Franco come un Maestro. Cosa ha fatto, e fa tuttora, la differenza rispetto ad altri? Credo sia perché in una società che ci spinge alla competizione, e dunque a creare relazioni basate sul potere anche attraverso l’uso del linguaggio, e in generale del sapere, Franco ha sempre utilizzato il linguaggio e il sapere come un codice di parità».*

Franco Bomprezzi (1° agosto 1952-18 dicembre 2014), che fu direttore responsabile del giornale «Superando.it» dall’avvio delle pubblicazioni fino al giorno della sua scomparsa.

Responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa), struttura promossa dalla UILDM di Pisa (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), Simona Lancioni è anche assidua collaboratrice del giornale «Superando.it». Ben volentieri ne pubblichiamo oggi il presente contributo, che corrisponde ai contenuti dell’intervento pronunciato il 1° dicembre scorso in occasione dell’evento di Milano, coincidente con la consegna del Premio Giornalistico Bomprezzi-Capulli, iniziativa dedicata rispettivamente a Franco Bomprezzi e a Maria Grazia Capulli.
Da parte nostra la ringraziamo sin d’ora per le parole usate nei confronti di Bomprezzi, giornalista e scrittore, che fu direttore responsabile del nostro giornale fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2014.

Mi considero, come molti e molte, una “discepola” di Franco Bomprezzi, e ritrovarmi qui a raccontare di lui mi fa sentire come “una formica che parla di un gigante”.
Ho avuto modo di frequentare Franco perché lui ha aderito per un certo periodo alla UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), dove si occupava di informazione (era direttore responsabile di «DM», la storica rivista dell’Associazione), e ha anche ricoperto il ruolo di Presidente Nazionale.
Si definiva un “infiltrato” perché non aveva una forma di distrofia muscolare, ma era interessato da osteogenesi imperfetta.

Franco aveva compreso l’importanza del linguaggio e lo gestiva con grande padronanza, anche, ma non solo, per ragioni professionali. Il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein affermava che «i limiti del proprio linguaggio esprimono i limiti del proprio mondo». Credo che ciò significhi che quanto possiamo conoscere del mondo è racchiuso nel nostro linguaggio.
Anche Franco era, tra le altre cose, un filosofo – non aveva dato la tesi, ma aveva finito tutti gli esami alla Facoltà di Filosofia –, e aveva ben chiaro che le parole creano mondi. Chiamare un individuo “persona con disabilità” oppure “poverino”, “infelice” o “handicappato”, non solo lo definisce, ma gli assegna un posto nel mondo.

Mi occupo di disabilità più o meno da trent’anni, e di persone con disabilità che sanno padroneggiare il linguaggio ne ho conosciute diverse, anche se non ne conosco che siano arrivate ai livelli di Franco.
Mi sono chiesta se il motivo per cui io, ma non solo io, lo considero un Maestro dipendesse esclusivamente dalla sua bravura. Ed un po’ mi viene da sorridere, perché ho conosciuto eccellenze in vari àmbiti del sapere, ma non mi sento una “discepola” di queste persone. Dunque cosa ha fatto, e fa tuttora, la differenza?
Ci ho messo un po’ a capirlo, e la risposta che mi sono data è questa: in una società che ci spinge alla competizione, e dunque a creare relazioni basate sul potere anche attraverso l’uso del linguaggio, e in generale del sapere, Franco ha sempre utilizzato il linguaggio e il sapere come un codice di parità.

Come detto, Franco era un filosofo, e precisamente un filosofo kantiano. La prima regola, infatti, del Decalogo della buona informazione sulla disabilità – che scrisse nel 1999, e che è ancora attuale (lo si legga in calce) –, è chiaramente un omaggio a Immanuel Kant. Essa infatti prescrive di «Considerare nell’informazione la persona disabile come fine e non come mezzo», mentre una delle formulazioni degli imperativi categorici di Kant è «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo».
Se una persona ti tratta come fine, invece che come mezzo, lo senti. Se non conosci la filosofia, forse non sai spiegarlo, ma quel codice di parità è qualcosa che va oltre la comprensione, è qualcosa che senti e che ti fa stare bene.
Quando affermo che questa modalità relazionale va oltre la comprensione, intendo dire che, nello stesso modo in cui non abbiamo bisogno di chiedere al pensiero se ci piace una pietanza, e neppure di sapere/conoscere com’è stata preparata, ma ci basta sentirne il sapore, analogamente, ad un livello relazionale, anche senza avere studiato, e senza alcuna competenza specifica in materia di comunicazione, siamo in grado di sentire quale posto nel mondo ci sta assegnando la persona che interagisce con noi.
Credo sia per questo che, tra le persone che hanno conosciuto Franco, siano ancora tante quelle che lo considerano un Maestro e avvertono la sua mancanza anche a distanza d’anni dalla sua morte. Ed io tra loro.

 

* Il presente testo è già stato pubblicato su «Superando.it», il portale promosso dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), e viene qui ripreso, con lievi adattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

 

Il Decalogo della buona informazione sulla disabilità di Franco Bomprezzi
1)
 Considerare nell’informazione la persona disabile come fine e non come mezzo.
2) Considerare la disabilità come una situazione “normale” che può capitare a tutti nel corso dell’esistenza.
3) Rispettare la “diversità” di ogni persona con disabilità: non esistono regole standard né situazioni identiche.
4) Scrivere (o parlare) di disabilità solo dopo avere verificato le notizie, attingendo possibilmente alla fonte più documentata e imparziale.
5) Utilizzare le immagini, nuove o di archivio, solo quando sono indispensabili e comunque corredandole di didascalie corrette e non offensive della dignità della persona. Quando la persona oggetto dell’immagine è chiaramente riconoscibile, chiederne il consenso alla pubblicazione.
6) Ricorrere al parere dei genitori o dei familiari solo quando la persona con disabilità non è dichiaratamente ed evidentemente in grado di argomentare in modo autonomo, con i mezzi (anche tecnologici) a sua disposizione.
7) Avvicinare e consultare regolarmente, nell’àmbito del lavoro informativo, le associazioni, le istituzioni e le fonti in grado di fornire notizie certe e documentate sulla disabilità e sulle sue problematiche.
8) Ospitare correttamente e tempestivamente le richieste di precisazione o di chiarimento in merito a notizie e articoli pubblicati o diffusi.
9) Considerare le persone con disabilità anche come possibile soggetto di informazione e non solo come oggetto di comunicazione.
10) Eliminare dal linguaggio giornalistico (e radiotelevisivo) locuzioni stereotipate, luoghi comuni, affermazioni pietistiche, generalizzazioni e banalizzazioni di routine. Concepire titoli che riescano ad essere efficaci e interessanti, senza cadere nella volgarità o nell’ignoranza e rispettando il contenuto della notizia.
Franco Bomprezzi, 1999

 

Ultimo aggiornamento il 21 Dicembre 2023 da Simona