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Silvia Cutrera: «libertà e indipendenza hanno caratterizzato le mie più importanti scelte di vita»

Intervista a Silvia Cutrera a cura di Simona Lancioni

Impegnata nella rivendicazione dei diritti umani delle persone con disabilità (impegno che le è valso un importante riconoscimento), promotrice dei principi di vita indipendente (intesa come assistenza autogestista), sentinella della memoria dell’Olocausto, consapevole della discriminazione multipla che colpisce le donne con disabilità e determinata nel contrastarla, attiva (molto attiva) nell’associazionismo di settore. Silvia Cutrera è questa e molte altre cose, come emerge dall’interessante intervista che ci ha rilasciato.

 

Una bella immagine di Silvia Cutrera.
Una bella immagine di Silvia Cutrera.

Cara Silvia, sei presidente dell’AVI di Roma (Agenzia per la Vita Indipendente), una Onlus che promuove e supporta la realizzazione di progetti personalizzati di assistenza autogestita di persone con disabilità. Cosa significa per te vivere in modo indipendente? Cosa manca ancora al nostro Paese per far sì che l’assistenza autogestita diventi un diritto esigibile?
«I principi di libertà e indipendenza hanno caratterizzato le mie più importanti scelte di vita. Un orientamento ricevuto in famiglia da un padre antifascista e una madre insofferente e resistente a dittature patriarcali.  Fin dall’adolescenza i miei genitori mi avevano sollecitato a intraprendere un percorso di studi funzionale ad un’occupazione stabile e individuato nel lavoro lo strumento che poteva garantire indipendenza economica e libertà nella costruzione del mio progetto di vita. Eravamo alla fine degli anni ’70, avevo venti anni, vinsi un concorso come impiegata in un’amministrazione pubblica, lasciai la città di provincia in cui ero nata, mi trasferii prima a Milano e poi a Roma, divenni adulta mantenendo l’impegno politico e sociale sperimentato durante gli anni delle contestazioni studentesche e lo trasformai in attività sindacale. Non avevo ancora acquisito una disabilità, l’incidente stradale che mi ha resa tetraplegica avvenne nel 1992 lo stesso anno della legge 104, una fortuita coincidenza! Per me era essenziale poter continuare a vivere in modo autonomo e partecipare come tutte le altre persone a una vita sociale piena e inclusiva e la legge 104 costituiva una riforma economico-sociale in materia di diritti, integrazione e assistenza delle persone con disabilità. Affermava inoltre di voler “predisporre interventi volti a superare stati di emarginazione ed esclusione sociale della persona handicappata”. Si considerava la persona disabile negli aspetti che riguardavano il suo sviluppo: dalla nascita alla presenza in famiglia, nella scuola, nel lavoro e nel tempo libero.  Oltre al deficit, si consideravano i fattori ambientali, sociali, economici e culturali che determinavano la condizione di svantaggio. Purtroppo agli enunciati principi  mancavano gli strumenti effettivi, le coperture finanziarie, la definizione dei compiti di Comuni, Regioni, ASL e ben presto mi resi conto che diventare  disabili nella nostra società equivaleva ad essere persone dimezzate: ovunque barriere architettoniche, trasporti inaccessibili, sporadiche opportunità culturali, invisibilità di tematiche su genere e disabilità tra i professionisti della riabilitazione e nei mezzi di comunicazione, esigua assistenza domiciliare e unicamente nelle forme mediate dai servizi municipali. A tale inerzia istituzionale si contrapponevano numerose associazioni rappresentanti le persone con disabilità e per rendere più efficace la rivendicazione e tutela dei propri diritti alcune tra le maggiori associazioni radicate a livello nazionale costituirono nel 1994 la FISH (Federazione Italiana Superamento Handicap).
La situazione assistenziale italiana era contraddistinta da frammentarietà, carenza e inadeguatezza dei servizi domiciliari e le persone con disabilità erano costrette a chiedere assistenza a familiari, amici e volontari. Rivendicare il diritto ad una vita indipendente diventava un’istanza che andava veicolata e rappresentata utilizzando strumenti politici incisivi per far comprendere a legislatori e amministratori che il modello in essere, basato su un approccio sanitario alla disabilità, era ormai superato e andava sostituito da un approccio che  tenesse conto di sedimenti sociali e culturali che avevano contribuito a erigere nella società barriere di varia natura che impedivano la partecipazione alla vita sociale sulla base di uguaglianza con gli altri. In varie parti d’Italia sempre più protagoniste diventavano le persone con disabilità che attraverso associazioni di rappresentanza organizzavano convegni, seminari, viaggi in altri Paesi europei per far comprendere agli interlocutori politici e agli amministratori comunali e regionali, il potenziale cambiamento che un’assistenza personale adeguatamente finanziata poteva apportare nella vita di una persona con disabilità. Non fu una passeggiata e inizialmente furono necessarie manifestazioni, picchetti e ricorsi. Nel 1998 il Parlamento approvava la legge 162 che modificava alcuni articoli della legge 104/92 inserendo  la consultazione delle principali organizzazioni del privato sociale e introducendo a livello nazionale la programmazione di “forme di assistenza domiciliare e di aiuto personale, anche della durata di 24 ore” e la possibilità per gli enti locali di “disciplinare, allo scopo di garantire il diritto ad una vita indipendente alle persone con disabilità permanente e grave limitazione dell’autonomia personale nello svolgimento di una o più funzioni essenziali della vita, non superabili mediante ausili tecnici, le modalità di realizzazione di programmi di aiuto alla persona, gestiti in forma indiretta, anche mediante piani personalizzati per i soggetti che ne facciano richiesta, con verifica delle prestazioni erogate e della loro efficacia”
Le associazioni che più avevano lottato per rivendicare il diritto delle persone con disabilità a poter vivere liberamente autogestendo la propria assistenza senza intermediari maturavano il progetto di costituire un’Agenzia per la Vita Indipendente che nasceva a Roma nel settembre 2002 per iniziativa delle Associazioni quali l’Unione italiana lotta distrofia muscolare (UILDM), l’Associazione Italiana Sclerosi Multipla (AISM),  l’Associazione Italiana Paraplegici (AIP Roma e Lazio), il Comitato Abbattimento Barriere Architettoniche (CABA), e Disabled People International (DPI).
L’esperienza maturata dalle persone con disabilità in queste associazioni spaziava da temi quali l’abbattimento delle barriere architettoniche, l’inclusione scolastica, il diritto al lavoro, la mobilità accessibile, l’empowerment, il raggiungimento di una piena autonomia, la formazione di consulenti alla pari. Le varie professionalità si erano formate sul campo, direi sulla propria pelle e potevano fornire consigli, informazioni su come gestire l’assistenza personale e dove e come reclutare assistenti personali.
Partecipai fin dall’inizio alle attività dell’AVI fino a diventarne presidente nel 2006, rinnovavo la necessità dell’impegno politico con la prospettiva di ottenere miglioramenti nella qualità di vita delle persone con disabilità. Nel frattempo veniva approvata la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dieci anni fa anche dall’Italia, dove con l’art. 19 dedicato, il tema della Vita Indipendente diventava trasversale a tutto l’articolato e raccomandava di garantire ad ogni persona il diritto di scegliere come, dove e con chi vivere e di essere inclusa nella collettività, obiettivo realizzabile solo soddisfacendo tutti i diritti economici, civili, sociali e culturali sanciti nella Convenzione, diritti realmente esigibili adottando nuovi modelli di welfare che tengano conto delle trasformazioni sociali e degli obiettivi dell’agenda 2030.»

Nel 2015 hai ricevuto dall’organizzazione FLIP (Free Lance International Press) il Premio Italia Diritti Umani, un importante riconoscimento a coloro che, per la loro attività, si sono distinti nel campo dei diritti umani. Un riconoscimento più che meritato, se consideriamo il tuo impegno nella promozione di una cultura inclusiva delle persone con disabilità, nel valorizzare i loro vissuti, nella conservazione della memoria dell’Olocausto che, prima ancora di essere rivolto contro gli ebrei, fu sperimentato sulle persone con disabilità. Come spiegheresti alle nuove generazioni di persone con disabilità l’importanza di impegnarsi in queste cause?
«Alla fine degli anni novanta completavo i miei studi universitari con una tesi di laurea sulla persecuzione degli ebrei italiani durante il fascismo. Tra le fonti storiche molti testi erano rappresentati dalle testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah in cui rimanevano anche le tracce dei sommersi, come ha insegnato Primo Levi. Mi soffermai molto anche sulla razzia degli ebrei romani del 16 ottobre del 1943 con ricerche mirate presso i luoghi del rastrellamento. Ero veramente indignata e addolorata nel leggere delle conseguenze delle leggi razziali, le deportazioni, l’annientamento nei lager e quasi incredula che tutto quanto fosse capitato a esseri umani innocenti diventati secondo l’aberrante ideologia fascista delle “non-persone” e in quanto tali spogliati prima dei diritti e poi delle vite. Non volevo dimenticare e continuavo a studiare fino a scoprire che analoga sorte era stata riservata alle persone con disabilità in Germania durante il nazismo, sterilizzate e eliminate perché considerate “vite indegne di essere vissute”. Approfondivo quindi lo studio dell’Aktion T4 realizzando un documentario e divulgando in Italia la mostra In Memoriam del prof. Von Cranach recandomi nelle scuole in funzione di sentinella della memoria per contrastare l’oblio e insegnare alle nuove generazioni il rispetto verso le minoranze, la lotta contro i pregiudizi, discriminazioni e stereotipi e magari invogliarli ad assumersi impegno e responsabilità.»

Sei vicepresidente della Giunta Nazionale della FISH, la Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, ed hai promosso al suo interno un’attenzione alle politiche di genere che ha portato dapprima al suo recepimento del “Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea” (2017), quindi all’approvazione da parte del Congresso FISH della “Mozione particolare sulle donne, ragazze e bambine con disabilità” (2018), poi alla costituzione del Gruppo Donne FISH e alla promozione, da parte della FISH e dell’associazione Differenza Donna, di un’indagine, ancora in corso, sulla violenza di genere nei confronti delle donne con disabilità (VERA – Violence Emergence, Recognition and Awareness). Ti sembra che, a livello complessivo (non solo nell’associazionismo), qualcosa stia iniziando a cambiare su questo fronte? Se sì, quali sono le novità? Se no, cosa pensi che bisognerebbe fare per promuovere il cambiamento?
«L’indagine ISTAT del 2015 rileva che: ha subìto violenze fisiche o sessuali il 36% di chi è in cattive condizioni di salute e il 36,6% di chi ha limitazioni gravi, a fronte dell’11,3% della popolazione femminile generale. Il rischio di subire stupri o tentati stupri è doppio (10% contro il 4,7% delle donne senza problemi).  Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, parenti, amici o conoscenti. 
Sono a conoscenza delle drammatiche statistiche relative a molestie, abusi e violenze che riguardano le bambine, ragazze e donne con disabilità, e infatti nell’estate del 2017 ho conosciuto una ragazza con disabilità stuprata durante una sessione riabilitativa dal suo fisioterapista. Ascoltare il racconto e la testimonianza di questa donna mi ha emotivamente sconvolta. Con l’Associazione Differenza Donna, che si occupa di aiutare le donne che non vogliono più subire la violenza, oltre a ideare il questionario VERA abbiamo realizzato un documentario, “Silenzi interrotti”, con la regia di Ari Takahashi, che raccoglie le testimonianze di tre ragazze con disabilità vittime di maltrattamenti e violenze sessuali, tra cui la ragazza che avevo conosciuta. È importante far sentire la loro voce e far emergere altre situazioni drammaticamente analoghe. I primi risultati del questionario e la proiezione del documentario sono stati presentati l’11 dicembre del 2018 durante l’iniziativa promossa da FISH  Donne con disabilità, violenze e abusi: basta silenzi presso il Senato della Repubblica (Sala dell’Istituto di Santa Maria in Aquiro), che ha visto la partecipazione di alcune parlamentari che si sono impegnate nel sostenere futuri progetti e iniziative sul tema. Auspico che la presenza di donne con disabilità in Parlamento, oltre a rappresentare una recente innovazione, solleciti politiche di genere mirate in ambiti importanti quali formazione, occupazione, sostegni per la vita indipendente, servizi accessibili per la salute e tutela dei diritti riproduttivi e sessuali. Ugualmente, a livello governativo, il rinnovato Osservatorio sulla condizione delle persone con disabilità (OND) deve diventare propulsore nel richiedere l’avvio del piano biennale sulla disabilità con particolare attenzione alle politiche di genere. Del resto l’Italia è stata richiamata dal Comitato sui diritti delle persone con disabilità (l’organo incaricato di verificare l’applicazione della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità) per l’assenza di politiche rivolte alle ragazze e alle donne con disabilità, ed in specifico per inadempienze rispetto al fenomeno della violenza nei loro confronti. Anche nel Rapporto delle associazioni di donne sull’attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia ciò che emerge è il vuoto di normative e politiche governative relativo alla condizione delle ragazze e donne con disabilità.»

Le donne con disabilità sono molto presenti nelle organizzazioni di volontariato, ma spesso sono poco rappresentate nei loro organi direttivi, e difficilmente nelle posizioni apicali (la FISH, ad esempio, non ha mai avuto una presidente nazionale). Anche nelle organizzazioni di volontariato esiste un “soffitto di cristallo”? Se sì, come si può infrangere?
«Innegabile che il soffitto di cristallo esista ed è anche abbastanza basso, del resto l’indice sull’uguaglianza di genere 2017 in Italia, rilevato dall’EIGE (European Institute for Gender Equality) ha collocato il nostro paese al 14 posto sui 28 paesi UE con punteggio 62,1 su 100.
Da un paio di anni, in occasione della giornata internazionale contro la violenza alle donne, FISH ha aderito e partecipato alla manifestazione del 25 novembre contro la violenza maschile nei confronti delle donne, un segno nella direzione di voler integrare la prospettiva di genere nelle politiche per la disabilità e nello stesso tempo l’emergere di una richiesta ai movimenti impegnati sui diritti delle donne di considerare nelle questioni di genere anche la condizione di disabilità. Con la  mozione approvata all’unanimità nel Congresso FISH del maggio 2018, che impegna la Federazione  a promuovere azioni specifiche per conoscere la reale dimensione della violenza subita dalle donne con disabilità attraverso indagini, raccolta dati, informazioni e sensibilizzazione, si è voluto dar vita a un gruppo di donne,  che si impegni sulle tematiche di genere, dal monitoraggio delle Convenzioni alle proposte di interventi che favoriscano la piena partecipazione e inclusione delle donne con disabilità. Sono stati anche presentati da FISH dei progetti sul tema della multi discriminazione che prevedono azioni di empowerment rivolti anche alle donne con disabilità presenti nelle associazioni, con la speranza di favorire processi innovativi e maggiori candidature di donne negli organismi direttivi.»

Parlando con le donne con disabilità si ha l’impressione che la maggior parte di loro pensino che tutte le difficoltà che sperimentano derivino dall’essere persone con disabilità, e non anche dall’essere donne, mentre i dati sulla discriminazione multipla mostrano chiaramente quanto l’essere donna sia per loro un fattore di ulteriore svantaggio rispetto ai maschi con disabilità. Condividi questa impressione? Se la condividi, come pensi si possa creare maggiore consapevolezza su questi aspetti?
«Spesso le donne con disabilità non sono consapevoli della multi discriminazione e ritengono che le discriminazioni e pregiudizi derivino prevalentemente dalla condizione di disabilità. La carenza di dati disaggregati per genere contribuisce a non orientare interventi e politiche per superare le disuguaglianze e nessuna campagna specifica di sensibilizzazione rende visibili le donne con disabilità. È come se fossero presenti solamente nei bisogni indifferenziati di cura e assistenza e non titolari di diritti. Si nega la loro identità sessuale in quanto da sempre considerate asessuate e non corrispondenti al modello stereotipato di donna perfetta. Gli stereotipi permangono anche nel ritenere il maschile intelligente, razionale e politico e il femminile domestico, materno e di servizio creando asimmetria nei ruoli. Riconoscere di subire anche una discriminazione sessuale oltre a quella basata sulla disabilità può attivare processi di cambiamento.»

 

Per approfondire:

Sezione del centro Informare un’h dedicata alle “Storie di donne con disabilità”.

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.

 

Ultimo aggiornamento: 23 aprile 2019

Ultimo aggiornamento il 23 Aprile 2019 da Simona