Menu Chiudi

Una città ospitale anche per le donne con disabilità

di Piera Nobili*

«Un incontro (spesso) mancato, la relazione fra ambiente e persone fragili», è questa la premessa da cui scaturisce la riflessione che Piera Nobili ha esposto al seminario online “Il corpo, la fragilità, la cura: nuove relazioni e nuove forme di abitare la città”**, svoltosi lo scorso 16 gennaio, e che vi proponiamo di seguito. Tra i soggetti maggiormente penalizzati dall’incontro mancato vi sono le donne con disabilità, per le quali diventa necessario un altro sguardo sulla città e sulla casa. (S.L.)

 

Un’opera pittorica dell’artista australiana Monica Rohan raffigura una giovane donna il cui corpo, dalla vita in giù, scompare in una specie di coperta variamente colorata: forse vi si è rifugiata, forse l’ha imprigionata.

Le persone con disabilità hanno ben chiaro cosa vuol dire limite grazie al confronto con il proprio corpo, un corpo che conosce la vulnerabilità e la fragilità. Ma le persone con disabilità sono un universo molto ampio che conta diverse condizioni di disabilità, diverse età, differenti generi e orientamenti sessuali, differenti culture e capacità economica, sicché quando parlo di persone con disabilità in realtà ricomprendo un ampio segmento della nostra società. La pandemia ha evidenziato maggiormente la loro vulnerabilità, oltre a quella di coloro che se ne prendono cura, vale a dire i cosiddetti caregiver.
In modo particolare i servizi a loro dedicati hanno subito un drastico ridimensionamento, ed alcuni sono stati sospesi. Fra questi, per prima la scuola che con l’introduzione della didattica a distanza ha reso ancor più difficile, in certi casi addirittura impossibile, per la popolazione scolastica con disabilità l’apprendimento, la relazione con il gruppo classe e con gli e le insegnanti. Anche i centri diurni, i laboratori e i tirocini di inserimento lavorativo sono stati bloccati o ridimensionati, e in molti territori non sono ancora ripartiti.
Un altro elemento che è venuto a mancare, e che tutt’ora manca per motivi di sicurezza sanitaria, è l’assenza o la drastica riduzione dell’assistenza domiciliare pubblica e privata, intendendo per privata l’assistenza fornita dalle badanti. Un’assistenza che riguarda la cura della persona a livello sanitario e psicologico, la cura della casa e della vita quotidiana, nonché la tutela dei corpi di persone che abbisognano di presenza sulle ventiquattro ore, come gli anziani con Alzheimer, le persone con gravi disabilità intellettivo/cognitive o con gravi disabilità fisiche.
A ricaduta questo stato di fatto ha portato ad un aggravio di lavoro da parte dei caregiver familiari, nella maggioranza dei casi donne, con le note conseguenze di perdita del lavoro e di stress psico-fisico accumulato.
Oltre a ciò, abbiamo assistito anche all’isolamento affettivo che la pandemia ha prodotto nei confronti di anziane e anziani residenti nelle RSA (residenze sanitarie assistite), e di coloro che contagiati dal Covid19 sono stati ricoverati in ospedale. Mi riferisco, ad esempio, alle persone con sindrome dello spettro autistico o, ancora una volta, con Alzheimer, alle gravi difficoltà che a volte incontrano in ambienti non abituali (spaesamento, perdita di riferimenti abituali), nella relazione con gli altri (difficoltà comunicative e di contatto fisico), nella reattività esasperata agli stimoli sensoriali (rumori, luci, contatto con strumentazioni sanitarie). A fronte di tali problematiche solo recentemente, e non ovunque, è stata data la possibilità di assisterli in ospedale.
Tutto ciò è accaduto (e altro ancora che non ho menzionato), perché pur essendo conosciuto da tempo il pericolo di una pandemia, questa si è presentata come un imprevisto in quanto non pensata e non elaborata, in quanto non sono stati pianificati gli interventi necessari a farvi fronte sia dal punto di vista sanitario, il più discusso in tutti questi mesi, sia da quello dell’inevitabile distanziamento sociale e delle sue ricadute. Non si è tenuto conto della vulnerabilità dei corpi abitanti e in particolare dei corpi più fragili. E l’imprevisto pandemico si è innestato in una realtà abitativa e urbana inaccessibile che promuove discriminazione nel suo essere abilista, anziché abilitante e generativa di benessere e benestare delle persone.
In modo particolare, il confinamento nella casa ha fatto emergere la limitatezza degli spazi, la faticosa promiscuità temporale e spaziale di mansioni lavorative, di cura e affettive, e la mancata relazione con l’esterno, con le e gli altre/i e con la natura, che mai come nel periodo di totale confinamento abbiamo anelato. Un confinamento che ha prodotto ansia in reazione al vissuto di un tempo sospeso che attende di tornare alla normalità. Ma di quale normalità parliamo riflettendo sulla narrazione di questa realtà per renderla un’esperienza di cambiamento? Cosa vuol dire nel prossimo futuro normalità?
Stare di casa nella città” è un titolo ombrello che ha consentito negli anni studi e ricerche sull’abitare delle donne, delle donne anziane e delle donne con disabilità.
Tali studi e ricerche hanno evidenziato che per avere qualità nel vivere non basta avere una casa accessibile, usabile, sicura, confortevole e bella, che alcune anziane e donne con disabilità hanno definito ancor prima della pandemia “una dorata prigione”, bensì occorre che sia inserita in un contesto vitale e multigenerazionale nel quale potersi muovere in sicurezza e autonomia, avere luoghi d’incontro e di svago, luoghi dedicati a servizi e commercio di prossimità, sistemi di comunicazione comprensibili e usabili, fino ad avere un “network di vicinato attivo”, ovvero partecipare a una comunità cooperante e collaborativa.
Sentono la necessità di costruire relazioni di senso che non solo restituiscano mutuo-auto-aiuto, ma che contemporaneamente facciano sentire loro stesse partecipi della società in cui vivono. Tutti questi desideri disegnano luoghi elettivi con i quali riconoscersi.
Per raggiungere tale risultato occorre che qualunque progettazione abbia una visione strategica e di sistema, approcciando in modo integrato ai differenti interventi pubblici e privati che vengono realizzati. Interventi che dalla casa si irradino verso il quartiere, la città e il territorio.
Le diverse iniziative sviluppate sull’abitare da associazioni femministe locali (Ravenna) diedero luogo, agli inizi degli anni 2000, a un gruppo spontaneo di lettura e scrittura composto da donne anziane nel quale fui coinvolta. Partirono dalla lettura di Betty Friedan (un’attivista statunitense, teorica del movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta) per interrogarsi su quale casa avrebbero voluto e come doveva essere. Un lavoro che si è concluso con un convegno sui modelli abitativi nel 2004.
A questo si sono succedute negli anni le ricerche effettuate tramite brevi questionari, incontri partecipati e interviste narrative a donne anziane e donne con disabilità, alle quali abbiamo chiesto di riflettere anche sulla casa, sui diversi modelli abitativi.
Da tutti questi lavori è emerso che il loro interesse era rivolto soprattutto ai condomini solidali, alla coabitazione (mini-alloggi, mini-appartamenti aggregati attorno a delle aree comuni, che vengono usate da tutti e tutte) declinata fra l’altro con diverse modalità di convivenza, alla RSA diffusa, che consiste nel continuare ad abitare ognuna in casa propria costruendo legami relazionali fra loro, e al contempo avvalendosi di una serie di servizi pubblici e privati mirati alle specifiche esigenze. Le più giovani tra le donne con disabilità in modo particolare hanno anche parlato di co-living (piccole abitazioni in cui risiedono delle persone, che possono essere una coppia o degli amici, che danno ospitalità, in genere da un giorno a un anno e mezzo, massimo due, ai cosiddetti viandanti, cioè a coloro che abitano in maniera temporanea un determinato territorio, e soggiacciono a delle regole condivise all’interno del co-living stesso). Hanno rivolto il proprio interesse a quei modelli che non si riferiscono all’istituzionalizzazione, che non sono servizi abitativi che vengono resi per specifiche esigenze di segmenti di popolazione letti come unitari, perché tali non sono.
Il desiderio di condividere l’abitare svela da un lato l’esigenza di far fronte a risorse economiche limitate e alla necessità di darsi reciproco aiuto, ma da un altro lato svela soprattutto la volontà di salvaguardare la propria indipendenza e soggettività, di poter scegliere le relazioni e il modo con cui relazionarsi, in pratica di essere padrone del proprio tempo, del proprio spazio e del proprio vissuto in rapporto a quello spazio e a quel tempo.

Facendo un’estrema sintesi dei vari contributi raccolti con le ricerche a cui facevo riferimento, quello che è emerso, è l’idea di avere una “città ospitale”, una parola cara al Gruppo Vanda (una comunità accademica femminile che operava alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano dal 1990, anno della sua fondazione), e a molte altre donne che si sono impegnate sul tema dell’abitare, fra cui l’amica Gisella Bassanini che ha relazionato nel precedente incontro.
Il concetto di ospitale/ospite mi ha subito colpito, perché con questo termine si conferma sicuramente la reciprocità del patto di ospitalità fra colui/colei che ospita e colui/colei che è ospitato, ma contemporaneamente il termine ospite e ospitale porta con sé concetti di uguaglianza e di equità, che significa avere pari diritti nella differenza. Quindi una città ospitale dovrebbe essere una città accogliente in relazione allo stato bio-psico-sociale di tutti coloro che la abitano, nessuno e nessuna esclusa. Una città che si prende cura di chi abita essendo attenta al corpo materiale e immateriale, ai diversi stili di vita, alle diverse famiglie che la abitano, alle abitudini e ai desideri di coloro che la vivono. In pratica una città che si prende cura della relazione tra persone e ambiente. Quella che cerco di disegnare è una città e un territorio che partendo dalla conoscenza antropologica e fenomenologica dell’abitare, diventa essa stessa consapevole che l’ambiente, cioè tutti i luoghi abitati, non è neutro rispetto alla qualità della vita delle persone e del loro benessere.
Con il termine benessere non parlo solo ed esclusivamente della qualità legata all’accessibilità, al comfort, a tutte le parole che ho utilizzato in precedenza, ma parlo anche dei diritti umani e della loro piena attuazione. Avere una casa, ad esempio, potersi muovere liberamente, partecipare attivamente alla vita sociale, poter condurre una vita indipendente, poter decidere con chi e come abitare sono obiettivi essenziali della qualità del vissuto, dello stare e sentirsi bene, del benessere. Da questi diritti spesso sono escluse le donne con disabilità che vivono l’intersezionalità della doppia discriminazione: quella di essere donne ed essere disabili, alle quali si possono intrecciare ulteriori stigmi quali l’età, l’orientamento sessuale, la cultura d’appartenenza, l’etnia, la capacità economica. L’intersezionalità è un elemento fondamentale di analisi e di conoscenza del vissuto delle donne con disabilità all’interno dell’ambiente antropizzato.

Un’altra esperienza che ho vissuto ultimamente è stata quella di partecipare alla comunità di pratica delle donne con disabilità costituitasi nell’ambito del progetto “Disabilità: la discriminazione non si somma, si moltiplica. Azioni e strumenti innovativi per riconoscere e contrastare le discriminazioni multiple”. Un progetto promosso dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Da questa comunità sono emerse una serie di riflessioni e considerazioni relative alla mancanza di investimento politico, di investimento sociale e culturale nei confronti delle donne con disabilità, a partire a volte anche dagli stessi familiari.
Non è un caso, quindi, che anche gli ambienti antropizzati non siano nei loro confronti accoglienti e ospitali. Faccio un esempio molto concreto e vado alla conclusione. La medicina di genere, che sta lentamente emergendo anche in Italia, si interessa della salute delle donne ed interviene in special modo nelle specialità di prevenzione, di ginecologia e maternità, ma negli ambulatori, consultori e ospedali risulta ancora oggi difficile poter anche semplicemente accedere per le donne con disabilità, tant’è che sono molte quelle che non praticano la medicina preventiva.
Questo accade perché manca una preparazione mirata del personale medico e paramedico alla relazione e manipolazione di corpi differenti. Alcune donne con disabilità, nell’ultima esperienza che ho vissuto, li chiamano “corpi inclinati”. Ma non solo, mancano attrezzature di visita, di diagnostica e cura accessibili ed usabili, mancano sistemi di comunicazione alternativi a quelli comuni della parola. Mancano, inoltre, spazi, allestimenti e comunicazione adeguati alla relazione con donne che abbiano patologie di natura psichiatrica o intellettivo-cognitiva.

La comunità di pratica a cui ho fatto riferimento ha raccolto alcune esperienze definite buone pratiche, una di queste è quella dell’Ambulatorio “Il fior di loto”, promosso dall’Associazione Verba di Torino, con la quale si sottolinea il significato e il valore dell’approccio spazio-temporale. Gli spazi e le attrezzature sono accessibili, il personale sanitario, che è composto da donne, è formato all’incontro con le donne con disabilità, e l’aspetto interessante su cui hanno lavorato è quello del tempo. Si sono rese conto che occorre un tempo più lungo per dare agio alle donne disabili di raggiungere e accedere al servizio, di prepararsi alla visita, di farsi visitare, di relazionarsi con la medica presente. Cosicché hanno previsto appuntamenti di maggiore durata per le donne con disabilità, ma non solo, hanno anche ottimizzato la presenza delle pazienti all’interno dell’ambulatorio facendo convergere in un unico appuntamento visita, esami e cure. Questa credo che sia una buona pratica che valga la pena di studiare meglio e quindi di copiare.

 

* Piera Nobili, architetta, presidente del CERPA Italia Onlus (Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell’Accessibilità), socia delle associazioni ravennati Femminile Maschile Plurale e Libere donne-Casa delle donne, da sempre impegnata sui temi dell’inclusione e del benessere ambientale per/con persone anziane e persone con disabilità con un’attenzione particolare alle donne.

** Tra il 2020 e il 2021 l’Associazione Libera Università delle Donne (LUD) ha organizzato un ciclo di tre seminari online sul tema “Il corpo e la polis – Il femminismo alla prova della polis”. Il secondo di questi seminari, coordinati ed introdotti da Lea Melandri (presidente dell’Associazione, giornalista, saggista e attivista per i diritti delle donne), si è tenuto il 16 gennaio 2021 ed era intitolato “Il corpo, la fragilità, la cura: nuove relazioni e nuove forme di abitare la città”.
Questa la presentazione del seminario: «Un incontro (spesso) mancato, la relazione fra ambiente e persone fragili. Le persone fragili costituiscono un ampio insieme di soggetti fra loro diversi per genere, orientamento sessuale, generazione, stato di salute, capacità economica, esperienze personali, cultura, etnia e via discorrendo, che possono vivere situazioni marginalizzanti a partire dall’ambiente antropizzato. Il progetto dell’abitare e dello spazio pubblico (inteso come bene comune) dovrebbe saper rispondere alle esigenze di tutt* coloro che abitano, in una visione strategica ed integrata di interventi che dalla casa si irradiano verso il quartiere, la città e il territorio. In particolare, la discriminazione multipla e intersezionale vissuta dalle donne con disabilità (e non solo) porta un altro sguardo sulla città e sulla casa.».
I filmati del seminario sono disponibili sul canale YouTube dell’Associazione Libera Università delle Donne ai seguenti link: filmato delle relazioni (1:36:58 minuti) e filmato del dibattito (1:09:47 minuti).

 

Per approfondire:

Associazione Libera Università delle Donne

Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.

Ultimo aggiornamento il 31 Gennaio 2021 da Simona