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Violenza sulle donne con disabilità, il filo del discorso

Recensione de «La vie en rose», a cura di Simona Lancioni

 

È ancora in distribuzione la preziosa monografia «La vie en rose. Donne con disabilità: inventare e gestire percorsi di uscita dalla violenza», che raccoglie gli atti del 1° Workshop Nazionale dedicato al tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità. Ed è quanto mai importante riprendere il filo del discorso avviato nell’imminenza del 2° Workshop Nazionale (Perugia, 28-29 novembre 2015), onde evitare di dover iniziare nuovamente tutto da capo.

 

Copertina della monografia “La vie en rose” realizzata dall’illustratore Attilio Palumbo. Una grosso braccio maschile con una mano chiusa a pugno, ma con l’indice che indica verso l’alto, è posto al centro dell’illustrazione. Sull’indice si avventura, in una prospettiva irreale, la minuscola sagoma di una donna.
Copertina della monografia “La vie en rose” realizzata dall’illustratore Attilio Palumbo. Una grosso braccio maschile con una mano chiusa a pugno, ma con l’indice che indica verso l’alto, è posto al centro dell’illustrazione. Sull’indice si avventura, in una prospettiva irreale, la minuscola sagoma di una donna.

«La vie en rose. Donne con disabilità: inventare e gestire percorsi di uscita dalla violenza» è il titolo della ricca monografia pubblicata su «HP Accaparlante» (n. 2, 2015), la rivista del Centro Documentazione Handicap di Bologna, edita da Quinta di copertina, che raccoglie gli atti dell’omonimo Workshop Nazionale (svoltosi a Milano lo scorso 1° dicembre), il primo incentrato sul tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità. Essa è dedicata a Franco Bomprezzi, un «giornalista a rotelle», come amava definirsi lui, l’amico e compagno di strada (come lo definisce Martina Gerosa nel suo intervento introduttivo), che ci ha lasciato il 18 dicembre scorso, e che di quell’evento avrebbe curato la moderazione se solo la malattia gli avesse concesso di farlo. «Non mi è mai passato per la testa di usare violenza fisica nei confronti di una donna, e non perché vivo in sedia a rotelle. Potrei riuscirci anche da qui, su questo non ho dubbi. È proprio perché l’idea di possesso, di proprietà sulla donna, non mi appartiene, non fa parte del mio bagaglio di viaggio nell’esistenza. So di non possedere del tutto neanche me stesso, dal momento che il corpo non sempre risponde ai comandi del cervello o del cuore. Figurarsi se posso immaginare una sorta di dominio su un essere diverso da me», scriveva Bomprezzi nell’estate del 2013 (“Dedichiamo il Ferragosto alle donne?”, «FrancaMente», Vita.it, 13 agosto 2013, testo citato nella monografia), e coglieva l’aspetto centrale della riflessione sulla violenza: la violenza, chiunque ne sia il bersaglio, e quando non si configura come un atto di difesa, sottende sempre l’idea di possesso, la persuasione che degli altri e – più spesso – delle altre si possa disporre discrezionalmente. La violenza interroga i modi di stare in relazione. Occuparsi di violenza, vuol dire occuparsi di questo.

Curata da Martina Gerosa, Giovanna Di Pasquale e Valeria Alpi, vestita con una singolare copertina dell’illustratore Attilio Palumbo, e sdrammatizzata dalle sagaci e impietose vignette di Furio Sandrini alias Corvo Rosso, l’opera ospita le voci di quanti, uomini e donne, disabili e non, hanno accolto la sfida di cimentarsi con un tema ancora poco frequentato. Tanto poco frequentato che davanti alla domanda “Dove si può orientare una donna con disabilità vittima di violenza?” – rivolta da Martina Gerosa (co-curatrice della monografia, disability & case manager) allorquando, nella primavera del 2013, intercettò una richiesta d’aiuto da parte di una giovane donna con disabilità che manifestava sofferenza per le condizioni in cui era costretta vivere nell’ambiente familiare –, l’unica risposta ricevuta dalla moltitudine di esperti interpellati (psicologi, assistenti sociali, medici, ricercatori e formatori) è stata «un imbarazzante silenzio».

E non è certo il silenzio la risposta di cui hanno bisogno le donne con disabilità vittime di violenza. Nel momento in cui «ci sono arrivate segnalazioni di donne portatrici di disabilità vittime di violenza domestica, impossibilitate a fuggire a causa delle loro difficoltà e per questo costrette a subire terribili maltrattamenti», osserva Nadia Muscialini (presidente dell’Associazione Soccorso Rosa, già responsabile del Centro antiviolenza ospedaliero presso AO San Carlo Borromeo di Milano), ed i consueti protocolli e le linee guida si sono rivelati inadeguati ad affrontare l’urgenza e la complessità dei casi in questione, allora è stato necessario valutare e trovare percorsi alternativi, «ma per fortuna si incontra sempre qualcuno che è disposto a fare innovazione e a sperimentare strade nuove.» Speranza, innovazione, flessibilità, creatività, interventi personalizzati, multidisciplinari e interistituzionali, protezione e accoglienza delle vittime, unite ad una grande umanità, prevenzione e presa in carico: sono i concetti chiave del suo intervento. Concetti che dovrebbero diventare punti di riferimento per chi è chiamato ad operare in questo campo.

Ma prima ancora di dare una risposta, la violenza di genere è necessario riconoscerla. E per riconoscerla è essenziale acquisire che le donne con disabilità sono donne. È il disconoscimento dell’appartenenza di genere la prima forma di violenza a cui sono soggette le donne con disabilità. Valeria Alpi (co-curatrice della monografia, caporedattrice di «HP Accaparlante») spiega molto bene come sono considerate le donne con disabilità: «La donna con disabilità non è una donna, è una persona disabile. Punto e basta. Dovrà passare la vita a gestire la sua disabilità, ma non a gestire la sua femminilità. Ma se non si parte dall’educazione al proprio corpo, alla propria espressione della sessualità, come si può riconoscere la violenza?»

C’è poi il problema dell’accessibilità dei centri antiviolenza, delle case rifugio, delle caserme (presso le quali presentare le denunce), dei tribunali, ma anche – non è scontata – dei pronto soccorso, dei consultori, e, ancora, delle campagne informative e di sensibilizzazione, dei numeri di telefono e degli sportelli antiviolenza… Capita che, anche quando ci si ricorda di pensarci – e non sempre ci si ricorda –, ci si fermi all’accessibilità per persone con disabilità motoria. Un gradino, una porta stretta si vedono, e capire che possono essere d’ostacolo è abbastanza intuitivo. Più complesso è invece far comprendere che a volte l’ostacolo è costituito da una mancanza (ad esempio: della segnaletica, della sottotitolazione e dell’audiodescrizione dei filmati, del marcato contrasto cromatico, di un accesso ai servizi alternativo alla chiamata telefonica, dell’interprete della lingua dei segni …). Interrogata su quali siano i formati e i supporti più adatti a realizzare una campagna di sensibilizzazione al tema della violenza nei confronti delle donne disabili accessibile anche a donne con disabilità sensoriali, Laura Raffaeli (presidente dell’associazione Blindsight Project), ha risposto così: «Documenti accessibili (soprattutto i pdf) come vuole la Legge Stanca [Legge 4/2004, N.d.R.], e pertanto fruibili anche da chi usa screen reader [letteralmente: lettore di schermo, un’applicazione software, solitamente usata da persone cieche, ma non solo, che identifica ed interpreta un testo in formato digitale e lo traduce tramite la sintesi vocale, o attraverso un display Braille, N.d.R.]. Audiovisivi di qualsiasi formato, ma necessariamente con sottotitoli, audiodescrizione e trascrizione in testo accessibile, come vuole la Convenzione ONU [Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, N.d.R.]. Eventuali siti web costruiti anch’essi in conformità alla Legge Stanca, lo stesso vale per le applicazioni e tutto ciò che riguarda l’informatica, lo spettacolo e il web.»

Vi è una tendenza, da parte dei professionisti, ad affrontare i problemi complessi con forme di riduzionismo specialistico, ma questa è una modalità che non consente di dare risposte adeguate a questo tipo di problemi, precisa Raffaele Monteleone (docente di Politiche Sociali – Laboratorio di Sociologia dell’azione pubblica “Sui generis”, Università degli Studi di Milano-Bicocca) introducendo ulteriori elementi su cui lavorare: «i servizi un po’ dappertutto (a nord come a sud) lavorano poi per competenze d’intervento molto separate; questa separazione a volte si trasforma nel gioco dello scarica barile: “se sei un disabile non certificato forse non devi parlare con me», “se sei una donna vittima di violenza forse non devi parlare con me”. Ma sappiamo, per esperienza, che quasi tutte le situazioni che prevedono interventi da parte dei servizi sono, nel caso delle donne con disabilità vittime di violenza (ma non solo), delle situazioni assolutamente al confine, molto poco standard nella loro ordinarietà. Ecco, le politiche pubbliche dovrebbero costruire contesti e strumenti per intervenire in modo personalizzato: non si possono assumere i punti di partenza delle persone come eguali perché non lo sono affatto, e questa oltretutto rappresenta una forma di discriminazione istituzionale.» Gli attuali sistemi istituzionali di presa in carico non considerano e non valorizzano le capacità degli individui e, pertanto, si rivelano incapacitanti. Le organizzazioni tendono ad offrire sempre gli stessi servizi e a non cambiare. Per superare questa situazione è necessario concepire le organizzazioni «come mezzi e non come fini in sé, mettendo al centro la complessità delle vite delle persone che dovrebbero sostenere e supportare.» Considerazioni, quelle di Monteleone, che sembrano riecheggiare l’imperativo categorico kantiano: «agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo.»

Vignetta realizzata da Corvo Rosso per la mostra “Ti amo troppo…”. Dialogo tra due personaggi della famiglia degli inesistenti. Lui: “non sei più quella d’una volta”. Lei: “che ti diceva sempre sì”.
Vignetta realizzata da Corvo Rosso per la mostra “Ti amo troppo…”. Dialogo tra due personaggi della famiglia degli inesistenti. Lui: “non sei più quella d’una volta”. Lei: “che ti diceva sempre sì”.

L’esigenza di stabilire chi debba fare cosa si presenta nel momento di valutare se sia «meglio (e più facile) avere nuovi servizi specializzati nella violenza sulle donne con disabilità, oppure estendere l’accessibilità dei servizi generali di supporto contro la violenza sulle donne e/o la specializzazione nella violenza di genere dei servizi generali di supporto per le persone con disabilità». La fondamentale domanda è stata posta da Massimiliano Rubbi (componente della Redazione di «HP Accaparlante») a Sabine Mandl, una delle direttrici del progetto “Access to Specialised Victim Support Service for Women with Disabilities who have Experienced Violence“, svolto in quattro Paesi dell’Unione Europea (Austria, Germania, Islanda e Regno Unito) dal 2013 a gennaio 2015, e guidato dall’Istituto Ludwig Boltzmann per i Diritti Umani di Vienna. Questa la risposta di Sabine Mandl: «Dalle nostre esperienze, ci sono due elementi: la maggior parte delle donne raccomanda con forza di rendere i servizi generali di supporto alle vittime più accessibili (ridurre una grande quantità di barriere: es. ambientali – ascensori, bagni accessibili, sistemi di guida – e di accesso all’informazione – sito web, opuscoli anche in audio, lingua dei segni o scrittura semplificata, ecc.) e più consapevoli e sensibilizzati (personale formato su violenza e disabilità, più donne con disabilità che lavorano nei servizi…). Peraltro le donne hanno sottolineato pure l’interesse al fatto che, in aggiunta, occorrano anche “servizi specializzati per donne che hanno subito violenza”, es. in Austria, come “esempio di buona pratica”, NINLIL. Le donne hanno anche evidenziato che le organizzazioni per le persone con disabilità (centri residenziali, centri di cura, laboratori per persone con disabilità, ecc.) e le organizzazioni di utenti dovrebbero essere più consapevoli della violenza specifica di genere e stabilire meccanismi per la protezione e la prevenzione della violenza. Le donne hanno affermato che al momento le donne con disabilità che subiscono violenza non sono supportate a sufficienza né dai servizi di supporto alla vittima (concentrati principalmente sulla violenza domestica verso le donne non disabili) né dalle organizzazioni per le persone con disabilità (non concentrate sulla violenza specifica di genere).» Ed il messaggio è chiarissimo: prima la risposta inclusiva – le donne con disabilità devono poter accedere agli stessi servizi antiviolenza realizzati per tutte le donne -, poi, in aggiunta, le altre risposte (servizi specializzati e dedicati, e coinvolgimento delle organizzazioni delle persone con disabilità).

Mi fermo qui, non introduco ulteriori spunti di riflessione, non perché le considerazioni espresse dai tanti collaboratori e collaboratrici che non ho citato (e me ne scuso) non siano interessanti, tutt’altro. Ma perché questa è una recensione, e lo scopo di una recensione è quello di invogliare le persone a leggere l’opera recensita, e non quella di fornirne un riassunto. In conclusione mi limito ad osservare che nell’imminenza del 2° Workshop Nazionale, dal titolo «Violenza di genere e donne con disabilità: “non porgere l’altra guancia”» (organizzato dalla Rete delle donne AntiViolenza, a Perugia, il 28-29 novembre prossimi), è quanto mai importante riprendere il filo del discorso già avviato, onde evitare di dover iniziare nuovamente tutto da capo.

 

Nota: tutti i grassetti nelle citazioni testuali sono un intervento della curatrice della recensione.

 

Per approfondire:

Pagina “Contro la violenza sulle donne” curata dal Gruppo donne UILDM, contiene molta documentazione sul tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità.

 

Ultimo aggiornamento: 19 novembre 2015

Ultimo aggiornamento il 12 Dicembre 2017 da Simona