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L’uguaglianza è una luce che risplende nell’intimo

Pubblichiamo alcune riflessioni sulla campagna di sensibilizzazione “Non c’è posto per te!”, una finalizzata a promuovere l’equità d’accesso ai Servizi Antiviolenza.

Due giovani donne parlano tra di loro sedute su un divano, una di esse ha la sindrome di Down. Sullo sfondo tanti vasi con piante verdi poste su un ripiano davanti ad un’apertura da cui entra la luce (foto di Cliff Booth su Pexels).

Da quando è stata lanciata in rete, il 22 ottobre scorso, “Non c’è posto per te!”, una campagna di sensibilizzazione finalizzata a promuovere l’equità d’accesso ai Servizi Antiviolenza, sta ottenendo numerose adesioni. Essa è stata elaborata a partire dal dato che la quasi totalità delle Case rifugio (il 94%, per la precisione) esclude dall’accoglienza molte donne in situazione di svantaggio sociale, e dall’aver riscontrato che dei meccanismi di esclusione sono presenti anche in altri Servizi Antiviolenza. Aperta alle sottoscrizioni di Enti/Gruppi e persone (il cui elenco è posto in calce al testo della campagna stessa, disponibile a questo link), all’iniziativa stanno aderendo in larga prevalenza soggetti provenienti dal mondo della disabilità (tra le donne escluse vi sono infatti anche quelle con disabilità psichiatrica), figure impegnate nell’area dei diritti umani e del mondo accademico, espressioni dell’area sanitaria, una Casa delle Donne (quella di Milano), molte persone comuni. Stanno aderendo in tante e tanti, ma, considerata specificità del tema, pochi soggetti impegnati nel contrasto alla violenza di genere. Ovviamente molti di questi sono stati direttamente contattati, ma hanno declinato. Sebbene nel testo sia sottolineato «che non rientra nelle finalità di questa campagna discreditare i Servizi Antiviolenza», e che l’unico obiettivo della stessa è quello di «promuovere un’accoglienza senza discriminazioni», molti dei Servizi in questione non si sentono adeguatamente rappresentati.

Tuttavia l’obiettivo della campagna non è quello di restituire l’immagine che i Servizi Antiviolenza hanno di sé, bensì quello di rappresentare il punto di vista delle donne che, a causa dei meccanismi di esclusione, vengono ignorate dai Servizi stessi. La rete di protezione delle donne vittime di violenza nasce per rispondere anche alle esigenze di queste donne. Pertanto, se vogliamo misurare l’efficacia e l’appropriatezza delle prestazioni erogate, è corretto rivolgersi a chi ne fruisce. La campagna non mette in discussione che i Servizi Antiviolenza svolgano un preziosissimo lavoro di accoglienza, essa contesta che l’accoglienza sia prestata con una modalità selettiva, e che la selezione escluda (sia pure con percentuali specifiche diverse) proprio le donne che avrebbero maggiore bisogno di sostegno: donne che hanno delle dipendenze, donne che hanno un disagio psichiatrico, donne senza fissa dimora, vittime di tratta e prostituzione, donne straniere e donne agli ultimi mesi di gravidanza. Per quale motivo queste donne dovrebbero percepire i Servizi Antiviolenza come inclusivi visto che da questi vengono escluse?

Prima di intraprendere una campagna di sensibilizzazione pubblica avremmo potuto confrontarci con i Servizi Antiviolenza, è questa una delle contestazioni che ci viene mossa. Il problema è che il confronto pubblico sull’inaccessibilità e l’impreparazione dei Servizi Antiviolenza ad accogliere le donne con disabilità va avanti ormai da almeno dieci anni (se ne legga a questo link). In questo lasso di tempo chi promuove questa causa – non solo le persone e gli Enti coinvolti nella campagna – ha sempre cercato interlocuzioni cordiali e rispettose con i Servizi Antiviolenza, lavorando per promuovere una transizione inclusiva che non mettesse in difficoltà i Servizi stessi, anche in considerazione dei loro problemi oggettivi (finanziamenti discontinui, difficoltà organizzative, le complessità di reggersi sul lavoro di volontarie, ecc.). Ma questo approccio interlocutorio è stato frainteso, nel senso che molti Servizi, invece di mettere in discussione un’organizzazione impreparata ad accogliere donne con situazioni complesse – cosa che costituisce una forma di discriminazione indiretta* –, hanno pensato che fosse lecito normalizzarla. Interloquendo con esponenti dei Servizi abbiamo compreso che molte di queste (tutte donne) non stavano affatto lavorando alla transizione inclusiva perché non ritenevano un proprio compito occuparsi delle donne in situazione di svantaggio (sic!), e non percepivano come discriminatoria questa esclusione (ri-sic!). Era difficile per noi che operiamo in àmbiti collegati alla disabilità quantificare quanto questa convinzione distorta fosse diffusa. Quei riscontri, sebbene preoccupanti, potevano ancora essere considerati episodici. La “doccia gelata” è arrivata con la pubblicazione dell’ultimo rapporto Istat in tema di violenza di genere (Istat, Sistema di protezione per le donne vittime di violenza – anni 2021-2022, 7 agosto 2023). Se, come indica l’Istat, il 94% delle Case rifugio ha introdotto dei criteri di esclusione delle ospiti, questo vuol dire che la pratica discriminatoria è considerata “normale” dalla quasi totalità di queste strutture, e poiché queste, pur avendo sovente una propria autonomia, sono spesso gestite dai Centri Antiviolenza, anche questi non possono considerarsi estranei a questa pratica. Quanto la modalità escludente sia stata normalizzata ce lo dice anche il fatto che, pur essendo illegale – vìola una quantità impressionante di norme nazionali e internazionali, tra le quali anche la Convenzione di Istanbul, vale a dire il riferimento giuridico più elevato in materia di contrasto alla violenza di genere –, i Servizi Antiviolenza non si sono fatti alcun problema a dichiarare all’Istat di aver introdotto una forma di discriminazione diretta** (tali sono infatti i criteri di esclusione dall’accoglienza delle ospiti).

Due amiche comunicano nella lingua dei segni attraverso una videochiamata (foto: Pexels).

Nella sostanza siamo passati dalle oggettive difficoltà a reimpostare un’organizzazione impreparata ad accogliere donne con situazioni complesse – difficoltà che però bisogna avere la volontà affrontare e risolvere per consentire un accesso ai Servizi rispettoso dei princìpi di uguaglianza e non discriminazione –, all’affermazione che non spetta ai Servizi Antiviolenza accogliere queste donne, e che dunque si può dichiarare tranquillamente che le Case rifugio si rifiutano di accoglierle senza nemmeno preoccuparsi che tale lacuna venga in qualche modo colmata.

Com’è stato possibile distorcere e fraintendere in questo modo i princìpi di uguaglianza e non discriminazione che, tra le altre cose, sono anche alla base dei tanti Femminismi ai quali in genere i Servizi Antiviolenza si ispirano? Le risposte a questo enigma possono essere diverse. Ma, a parere di chi scrive, ve ne è una che va a toccare “corde profonde”. Essa risiede nell’incapacità di rivolgere lo sguardo dentro di sé. Infatti, solo chi scruta il proprio intimo in modo sereno e onesto può scoprire che nessuna persona ha fondati motivi di sentirsi superiore o inferiore a qualcun’altra. L’uguaglianza, prima ancora di divenire un principio etico e giuridico, e prima di tradursi in prassi operative, è una luce che risplende nell’intimo. E non importa quanto possano essere pronunciate le differenze delle persone che incontra sul proprio cammino, chi è rischiarata/o da quella luce le vedrà sempre come esseri umani simili a sé.

Esistono già nel contesto italiano Servizi che non hanno criteri di esclusione e professioniste che da almeno un decennio stanno riflettendo e facendo proposte su questi temi. Pertanto, oltre a riconfermare la diponibilità di chi sta promuovendo questa campagna a lavorare con chiunque sia interessata/o, è possibile aprire un confronto con queste realtà, la cui stessa esistenza dimostra che un’organizzazione inclusiva dei Servizi è concretamente possibile.

In conclusione ricordiamo che la campagna di sensibilizzazione “Non c’è posto per te!” è disponibile a questo link. Chi desidera aderire come singola persona, o come Ente/Gruppo, può farlo scrivendo alla mail info@informareunh.it. Ci auguriamo che anche chi opera nei Servizi Antiviolenza inizi presto a vedere nelle donne escluse dalle Case rifugio delle donne simili a sé. Si chiama sorellanza, anch’essa risplende nell’intimo e non ti permette di abbandonare una tua sorella in difficoltà. Speriamo caldamente che questa parola che esprime un sentire, diventi anche un “luogo” di incontro.

Simona Lancioni
Responsabile di Informare un’h – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa)

 

* «Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone»: articolo 2, comma 3 della Legge 67/2006  (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni).

** «Si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga»: articolo 2, comma 2 della Legge 67/2006 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni).

 

Nota: il Centro Informare un’h è disponibile ad ospitare eventuali repliche da parte dei Servizi Antiviolenza.

 

Vedi anche:

Non c’è posto per te! – Campagna di sensibilizzazione in tema di violenza di genere, «Informare un’h», 22 ottobre 2023.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “La violenza nei confronti delle donne con disabilità”.
Sezione del centro Informare un’h dedicata al tema “Donne con disabilità”.

 

Ultimo aggiornamento il 16 Novembre 2023 da Simona